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Cina

Il Sole (grazie a Bricco) illumina il buco nero dell’ex Ilva

Mirabile analisi di Paolo Bricco per il Sole 24 ore sul caso dell'ex Ilva. La lettera di Francis Walsingham

Caro direttore,

sono bene che gradisci proposte sfiziosette di articoli e missive sfuculiose, e comprendo la tua voglia – e talvolta pure la tua ansia – di non far infeltrire i lettori (come ripeti sovente sulla scorta di quanto ti ripeteva Vittorio Feltri al Borghese quando eri giovincello, mi hai detto tempo fa se ricordo bene) e dunque di proporre contenuti (so che la parole ti fa orrore ma ti devi comunque adeguare ai tempi moderni come sto facendo io) originali, non banali e magari non presenti sulla stampa italiana.

Concordo. Però consentimi un’eccezione oggi, visto anche che mi hai convinto a leggere i quotidiani italiani dopo decenni in cui per lavoro ho quasi solo letto giornali americani, britannici e francesi.

L’eccezione me la offre il Sole 24 Ore. Mi sono tuffato negli articoli che oggi il quotidiano confindustriale ha dedicato al caso ex Ilva. Una questione che siccome non ho seguito dagli inizi ho sempre faticato nel comprendere nessi, implicazioni, reale stato dell’arte, per non parlare degli innumerevoli interventi della magistratura.

Ogni volta che negli scorsi mesi leggevo gli articoli di cronaca sulle testate italiane ero da una parte desideroso di capire e dall’altra parte, alla fine dei pezzi, ero deluso per aver capito poco o nulla.

Ecco, oggi invece grazie a un’analisi di Paolo Bricco – che in effetti tu da tempo mi consigliavi di leggere, anche se scrive poco e forse non per sua apatia ma per indifferenza dei vertici del giornale – mi è chiaro tutto.

In un solo articolo si capisce genesi, problemi, casini e scenari. Tramite te vorrei ringraziare Bricco di questa opera meritoria.

Già l’incipit fa comprendere lo stato dell’arte:

Il disastro dell’ex Ilva è il risultato della peggiore fra le combinazioni possibili: la miopia della classe dirigente politica italiana, l’irresponsabilità morale e la prevalenza dell’interesse aziendale su tutto di Arcelor Mittal, la cecità legislativa delle policy europee concepite a Bruxelles e, a chiusura del cerchio, l’incapacità di maneggiare problemi complessi da parte dei nostri governi, quasi che “il governo italiano” fosse una forma istituzionale segnata da una afasica e strutturale incomprensione verso i grandi nodi industriali del nostro tempo.

Poi in poche righe sistema il colosso franco-indiano:

Arcelor Mittal, nel 2018, a Taranto arriva per produrre acciaio. Le leggende nere di una operazione concepita fin dall’inizio per sabotare un concorrente non rispondono al vero. Il manager mandato dalla famiglia Mittal, Matthieu Jehl, guida una squadra composta, anche e soprattutto, da tecnici di fabbrica e da dirigenti selezionati dal primo produttore siderurgico internazionale nei suoi stabilimenti.

Quindi passa alla politica e finalmente capisco il disastro dei grillini pure su questo dossier:

Il problema sorge nel 2019. Il secondo governo Conte, in particolare nella sua componente Cinque Stelle che ha come frontman Luigi Di Maio, che al ministero dello sviluppo economico e del lavoro era già stato fra i principali fautori della fine della povertà in Italia con il reddito di cittadinanza, fa una cosa semplice, ma devastante: rende nella sostanza nulla la parte di contratto di Arcelor Mittal che prevedeva il cosi detto scudo penale, ossia la certezza che il gruppo siderurgico indiano – subentrato alla famiglia Riva e ai commissari statali – non debba pagare penalmente per errori compiuti, prima, da altri.

E che fa il gruppo franco-indiano?

Arcelor Mittal, cambia strategia. Rimane in Italia. Ma, in maniera graduale e inesorabile, si disimpegna. Cambia i vertici dell’ex Ilva. Jehl lascia il Paese nell’autunno del 2019, a ottobre. Nell’inverno del 2020, a gennaio e a febbraio, Arcelor Mittal richiama i suoi tecnici e i suoi amministrativi stranieri destinandoli alle sue altre acciaierie nel resto del mondo. E, soprattutto, nel 2021 compie una scelta mai vista nel capitalismo internazionale: deconsolida la sua controllata dal bilancio, riduce qualunque sinergia fra Viale Certosa – sede a Milano dell’impresa – e gli uffici che a Londra e nel Lussemburgo si occupano di finanza e di strategia, trasformando l’ex Ilva in una monade con un livello di scambio minimo con il resto del gruppo, quasi un corpo cellulare a sé stante intorno a cui i Mittal stringono una sorta di cordone sanitario. Peraltro, in Italia opera la sua controllata al cento per cento che si misura sul mercato con la sua altra controllata, appunto Acciaierie d’Italia, al 62 per cento

Bricco non esita anche a stimmatizzare anche il ruolo dell’Ue.

In Europa la Commissione aggiunge un’altra corrente gelida allo scenario della tempesta perfetta. Il protezionismo ultra-regolatorio della nuova border tax sull’import di acciaio e alluminio ha un effetto boomerang. Perché aumenta i costi dei produttori europei che debbono realizzare i prodotti anche, in parte, lavorando e rilavorando materie prime e componenti in acciaio importate. Quindi, fare acciaio in Europa è e sarà sempre più caro. E sarà sempre più caro anche per le politiche super stringenti fissate dall’Ets, lo European Union Emissions Trading Scheme, che può arrivare – secondo le stime di Eurofer – a un sovraccosto di 200 milione di euro per milione di tonnellate prodotte in altoforno.

Ma le colpe di Bruxelles non devono distogliere da quelle di Roma, rimarca Bricco:

L’ex Ilva è, fin dall’arresto di Emilio Riva e dei suoi collaboratori nell’estate del 2012, un problema enorme. L’Italia ha, da sempre, poca dimestichezza a gestire bombe pronte a esplodere da un momento all’altro. Con l’ex Ilva non è andata meglio. Quando il secondo governo Conte ha riscritto il contratto con Arcelor Mittal inserendo nel capitale il veicolo pubblico Invitalia, si è subito capito che il nuovo patto era tutto a favore del socio privato. Il potere pubblico non ha mai avuto un flusso adeguato e continuo di informazioni. Né ha condiviso la governance, nonostante la non irrilevante quota del 38% di capitale. E, soprattutto, non ha mai manifestato un reale interesse – una reale capacità di cogliere le dinamiche – industriali, prima ancora che finanziarie. Non molto è cambiato con il governo presieduto da Mario Draghi, non proprio un cultore della tecno-manifattura più pesante e della globalizzazione nelle sue versioni di fabbrica.

Grazie, Paolo Bricco.

E cordiali saluti a te, direttore.

Francis Walsingham

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