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Conte

Vi racconto come Conte e Di Maio si stanno bruciacchiando con l’Ilva

Che cosa succede nel governo sul caso Ilva? I Graffi di Damato

Al netto del coraggio, e non solo del buon senso, mostrato con la sua visita a Taranto – senza cravatta e pochette messegli invece addosso da qualche vignettista – nell’”affonderia” inventata con la solita efficacia ironica dal manifesto, Giuseppe Conte si è lasciata scappare forse una frase di troppo col pubblico che ha affrontato fuori e dentro lo stabilimento siderurgico Ilva. “Non ho soluzioni in tasca”, ha detto il presidente del Consiglio, oltre all’intenzione di fronteggiare con fermezza la vertenza apertasi con i gestori indiani: una vertenza che segnerà un’epoca, ha pressappoco aggiunto Conte con la competenza non tanto della politica, alla quale è arrivato solo l’anno scorso, quanto di una consolidata professione forense e cattedratica.

Una soluzione, preliminare a tutte le altre, e valida anche come una cartina di tornasole per verificare le reali intenzioni degli indiani, chiamiamoli così per brevità, e insieme come rimedio ad un cambiamento introdotto all’improvviso dal governo e dalla sua maggioranza al cosiddetto quadro normativo in cui maturarono gli accordi con gli attuali gestori degli impianti di Taranto, è il ripristino di quello che viene definito “scudo penale”. Grazie al quale i gestori attuali, come i commissari italiani che li hanno preceduti nelle operazioni di bonifica necessari sul posto, dovrebbero essere perseguiti solo per gli errori e le colpe loro, non dei predecessori. Dai quali essi hanno ereditato gli immani guasti ambientali e d’altro tipo che gravano sull’area. E’ uno scudo di elementare garanzia, senza il quale chiunque operi lì è alla mercè di una qualsiasi iniziativa giudiziaria, con danni economici e fisici, essendo in gioco anche la libertà degli interessati, oltre al denaro degli investitori.

Non a caso, del resto, tra gli incontri che Conte ha voluto avere a Taranto, dopo il confronto con la popolazione e con gli operai, davanti e dietro i cancelli, c’è stato quello in Prefettura col capo della Procura locale. Le cui iniziative sulla praticabilità degli altiforni, e relativi sviluppi giudiziari, hanno inciso non poco nell’esplosione della vertenza, quanto e forse anche più dei mutati interessi degli investitori per la congiuntura del mercato siderurgico internazionale.

Per troppi anni purtroppo anche la politica industriale, come a suo tempo persino la lotta al terrorismo, alla corruzione e, più in generale, la politica dell’ordine pubblico e dei diritti civili, sono state delegate dalla politica, di ogni colore e sfumatura, all’autorità giudiziaria. Nasconderlo sarebbe semplicemente disonesto. E avrebbero diritto a lamentarsene per primi i magistrati, fra i quali pure non manca chi ha profittato di questa situazione per cercare di cambiare in forma stabilmente squilibrata i rapporti fra politica e giustizia.

Per tornare alla faccenda dello scudo penale necessario a chiunque, e non solo agli indiani di turno, per compiere l’immane impresa della bonifica di un impianto industriale senza del quale avremmo decine di migliaia di disoccupati e almeno un punto e mezzo di perdita del prodotto interno lordo, ad abolirlo nelle scorse settimane è stata la maggioranza giallorossa con un colpo di mano legato alle tensioni esistenti all’interno del più consistente partito di governo, che è naturalmente il Movimento delle 5 Stelle. Il cui capo, ancòra, Luigi Di Maio ha appena avvertito minacciosamente che il ripristino della norma chiesto dal Pd, dopo la sbandata in cui si è fatto coinvolgere assieme ai renziani, sarebbe “un problema per l’esecutivo”.

I grillini, per quanti sforzi Di Maio potesse o volesse compiere per tenerli a bada, non foss’altro per essere stato nel precedente governo uno degli artefici dell’accordo con gli indiani come superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro, sarebbero in grado con il loro dissenso di boicottare l’operazione, sino a provocare una crisi, non foss’altro per l’approvazione dello scudo con una maggioranza diversa da quella del governo, cioè col contributo essenziale delle opposizioni di centrodestra.

A capeggiare il dissenso o la rivolta fra i pentastellati, peraltro frustrati da risultati e sondaggi elettorali che li danno ormai ad una sola cifra, com’è appena accaduto in Umbria, è l’ex ministra del Mezzogiorno Barbara Lezzi: una specie di “pasionaria” pugliese, in qualche modo emula della compianta e leggendaria Dolores Ibarruri dell’antifranchismo spagnolo. Ebbene, nel programma della visita o missione di Conte a Taranto c’era anche un incontro in Prefettura con i parlamentari del territorio, compresa dunque la Lezzi. Ma nelle cronache dei fatti non se n’è poi trovata traccia alcuna. Sarebbe bello sapere se l’incontro c’è stato, se vi ha partecipato anche la “pasionaria” e che cosa si sono detti l’una e l’altro, cioè la Barbara, di none, e il suo ex presidente del Consiglio, e ora presidente di un Consiglio dei Ministri da cui la signora è rimasta fuori, non facendosene forse ancora una ragione.

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