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Nucleare

L’energia nucleare in Europa (e in Italia)

L'approfondimento di Luca Longo

Carbone, petrolio, gas, rinnovabili sono spesso argomenti centrali nei dibattiti televisivi, in parlamento e nei bar. Raramente, invece, parliamo di energia nucleare. Pensiamo di esserci liberati del problema anni fa. Ma non tutti sanno che oggi le centrali nucleari producono circa un terzo dell’elettricità e un settimo dell’intera energia consumata nell’Unione europea.

L’energia nucleare rappresenta una alternativa low carbon agli altri combustibili fossili ed è un componente critico dei mix energetici di tutti gli Stati europei, Italia compresa.

Per fare fronte alla carenza di combustibili e all’esplosiva industrializzazione dell’intero continente al termine del secondo conflitto mondiale, i primi sei Stati fondatori della Comunità del Carbone e dell’Acciaio (la CECA da cui è nata la stessa Unione Europea) decisero di puntare sul nucleare per raggiungere l’indipendenza energetica. Per questo gli stessi sei fondatori, fra cui l’Italia, diedero vita alla Comunità Europea dell’Energia Atomica (Euratom) con l’obiettivo di contribuire alla ricerca e allo sviluppo di impianti per la produzione di energia da fissione per usi pacifici.

La prima battuta di arresto è arrivata dopo l’indicente di Chernobyl del 1986: in Italia il dibattito sul nucleare portò al referendum del 1987 e alla chiusura definitiva di tutti e quattro i reattori (Caorso, Garigliano, Latina, Trino Vercellese) costruiti sopra lo Stivale entro il 1990.

La seconda frenata si è verificata nel 2011 dopo la catastrofe di Fukushima: il più costoso disastro industriale della storia. Solo tre mesi dopo, in Italia un secondo referendum portò alla totale cancellazione di ogni ambizione nucleare, il Belgio chiuse temporaneamente due impianti dopo la scoperta di crepe nel nocciolo dei reattori e la Germania ne spense otto; ma decise di smantellare tutti gli impianti rimasti entro il 2022.

I governanti di numerosi Stati si sono trovati costretti ad abbandonare il nucleare per fare fronte al panico causato da quelle due catastrofi. Ma ben pochi si sono fermati a riflettere sulla sicurezza relativa delle diverse fonti di energia.

Uno studio dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica e di Forbes ha calcolato il numero di morti per miliardo di KWh di energia prodotta. Risulta che il carbone è di gran lunga il più letale, seguito da petrolio, biomasse, gas naturale, idroelettrico, solare, eolico e, infine, dal nucleare che risulta la fonte di energia più sicura. Per fare un confronto: nel 1975 il collasso di una serie di dighe in Cina ha provocato da 171.000 a 320.000 morti; invece le vittime accertate del più grave incidente nucleare della storia a Chernobyl sono 66 e l’ONU ha stimato un totale di circa 4000.

Chi vorrà riprendere il cammino dell’energia nucleare dovrà investire soprattutto nella sicurezza delle centrali in modo da garantire più elevati margini di sicurezza per gli operatori, per le popolazioni e per l’ambiente circostante. Maggiori problemi per la salute, invece, vengono dall’estrazione dell’uranio necessario per alimentare i noccioli dei reattori. Un quarto delle riserve mondiali si trovano in Australia, un altro quarto è distribuito fra Kazakhstan e Canada, mentre l’altra metà è sparso nel resto del pianeta. In Europa se ne trovano quantità significative quasi ovunque, inclusa l’Italia che possiede 6100 tonnellate di riserve. La maggior parte di queste ultime si trovano in due giacimenti a soli 15 km di distanza fra di loro sulle Alpi Orobie Lombarde: in Val Vedello (SO) e a Novazza (BG). Le vicine Russia e Ucraina possiedono rispettivamente il 5% e il 3% delle riserve mondiali, ma la stragrande maggioranza delle profondità della Siberia sono ancora inesplorate e numerosi altri giacimenti potrebbero nascondersi sotto il permafrost.

Sessanta anni dopo la fondazione della CECA e di Euratom, è evidente che l’obiettivo dell’indipendenza energetica europea cui miravano i padri fondatori non è stato raggiunto né dal nucleare né dalle altre fonti energetiche disponibili. Al contrario, l’Unione Europea è diventata il più grande importatore di energia al mondo: spende complessivamente 400 miliardi di Euro all’anno per comprare dall’estero più della metà (il 53%) dell’energia che consuma.

Concentrandosi sull’energia elettrica, vediamo che nel 2015 il nucleare, il carbone e le rinnovabili hanno fornito ciascuno esattamente il 27% del fabbisogno europeo, mentre il gas e il petrolio hanno contribuito rispettivamente per il 17% e per il 2%. Va notato che più della metà del pacchetto rinnovabile viene dalle turbine idroelettriche e non da fonti “più nobili” come il sole o il vento. Siamo ancora ben lontani dall’obiettivo Europeo previsto per il 2030, quando l’elettricità da fonti rinnovabili dovrebbe arrivare al 46-50% e rappresentare il 27% del consumo totale di energia.

Inoltre, entro il 2030, tutti gli Stati europei dovranno dotarsi di infrastrutture in modo da permettere – in caso di bisogno – di esportare verso altri paesi europei almeno il 15% dell’energia elettrica prodotta sul proprio territorio. Ora siamo ben lontani anche da questo obiettivo perché ora ben dieci Paesi europei (a parte Cipro e Malta che prevalentemente importano) non potrebbero garantire l’esportazione nemmeno del 10% della loro produzione.

Da questi numeri vediamo che l’Europa dipende dal nucleare per oltre un quarto della propria energia elettrica e più della metà dell’elettricità che deriva da fonti a basso impatto ambientale viene proprio dalle 128 centrali atomiche installate in 14 dei 28 Stati europei.

 

Queste producono complessivamente 119 miliardi di Watt (GWe) nucleari, ma oltre la metà di questi derivano dalle 58 centrali che battono bandiera francese. Parigi, ricordiamo, produce oltre tre quarti della propria energia elettrica con la fissione dell’atomo. Non possiamo trascurare che altre 56 centrali atomiche operative in Stati extraeuropei (Russia, Ucraina e Svizzera) portano all’interno dell’Unione ben il 17% del nostro fabbisogno elettrico.

Con la Brexit, la Gran Bretagna si appresta a levare gli ormeggi portando al di fuori dei confini dell’UE le proprie 15 centrali atomiche e il 7% dell’energia nucleare prodotta. Entro i confini rimangono, fra le altre, la Svezia – che produce quanto la Gran Bretagna – e la Germania, che contribuisce per il 9% ma che – ricordiamo – ha programmato di smantellare tutto entro il 2022.

Durante la campagna presidenziale, Macron ha confermato l’impegno per diminuire la dipendenza francese dall’energia nucleare fissata da Hollande. L’obiettivo di ridurre dal 75% al 50% la percentuale di energia elettrica prodotta dal nucleare verrebbe mantenuto, ma il nuovo presidente non ha confermato che questo obiettivo sarà raggiunto già nel 2025 come previsto dal precedente esecutivo. Macron dovrà cercare di non alienarsi il supporto di verdi, sinistre e ambientalisti, ma allo stesso tempo non potrà trascurare le analisi specialistiche che hanno definito tecnicamente irrealistico il raggiungimento di questo traguardo nei prossimi 8 anni.

L’Italia ha anche un altro primato negativo: è il più grande importatore di energia elettrica al mondo. Ai 132 Terawattora (TWh) prodotti nel 2014 ha dovuto aggiungere 22,3 TWh acquistati all’estero per soddisfare la domanda interna di 153 TWh. Di questo 15% importato, la quota di maggioranza arriva proprio dal nucleare francese.

Abbiamo detto che l’Italia è l’unica nazione appartenente al G8 che non possiede impianti nucleari. Nonostante questo, ben il 10% dell’elettricità che consumiamo viene proprio dal nucleare, ed ovviamente è tutto d’importazione, prevalentemente dalla Francia. Nell’improbabile caso in cui vengano rimesse in discussione le scelte politiche alla base dello stop al nucleare tricolore, sarà ben difficile tornare sui nostri passi.

Prima di tutto, non possediamo alcuna infrastruttura facilmente riutilizzabile: spendiamo denaro per lo smantellamento delle nostre quattro centrali nucleari e per la gestione del materiale fissile in esse contenuto, ma non è pensabile di rimetterle in servizio perché concettualmente ormai superate. Per la cronaca: solo per smantellare Caorso – che è rimasto acceso solo per tre anni – si stanno spendendo 450 milioni di Euro, più altri 300 milioni per il riprocessamento del combustibile fissile.

Ma soprattutto, dopo la fuga del Paese dal nucleare, si è verificata una parallela diaspora dei tecnici, degli ingegneri e dei fisici che lavoravano o si stavano specializzando nel campo del nucleare. Persino lo storico Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare fu prudentemente ribattezzato Ente Nazionale per le Energie Alternative.

Se oggi volessimo tornare al nucleare dovremmo comprare dall’estero non solo le centrali ma anche i tecnici. Il Paese che ha dato un decisivo contributo al nucleare pacifico con Fermi, Amaldi, Pontecorvo, Segré, Majorana e i Ragazzi di Via Panisperna, si ritrova privo di competenze e non potrebbe formare una nuova classe tecnica e scientifica nel campo nucleare se non mandando i nostri ragazzi a studiare oltrefrontiera…. Sperando che poi ritornino.

 

Articolo pubblicato su eni.com

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