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Artico

Da Suez all’Artico il passo è breve

L’approfondimento di Michele Scarpa

 

La chiusura accidentale del canale di Suez è stato un campanello d’allarme per la comunità internazionale sulle fragilità del commercio mondiale.

Se il Cairo ha pianto, Mosca potrebbe ridere.

Infatti in conseguenza del blocco di Suez i media russi hanno cercato di evidenziare l’insicurezza del corso d’acqua egiziano come via d’approvvigionamento per l’Europa del gas proveniente dal Quatar, suggerendo invece la via del gasdotto Nord Stream 2 come sicura fonte d’approvvigionamento di gas per l’Europa.

Infatti via Suez transita il 9% del commercio mondiale di gas liquefatto ed il suo blocco ha fatto impensierire i mercati energetici del Vecchio Continente, facendo volgere l’attenzione alla Russia, tradizionale fornitore di gas per l’Europa.

Nord Stream 2 è un gasdotto, in via di realizzazione, che va dalla Federazione russa all’Europa attraverso il Mar Baltico. Il nuovo gasdotto, simile a quello in esercizio (Nord Stream), stabilirà un collegamento diretto tra Gazprom ed i consumatori europei. Il progetto tuttavia è al centro di un’aspra battaglia geopolitica che vede gli Stati Uniti impegnati a sabotare una pipeline che legherebbe eccessivamente gli europei (o meglio la Germania) alla Russia che, con la nuova presidenza Biden, è tornata ad essere uno dei principali avversari degli Usa.

In realtà la crisi di Suez più che dare nuovo impulso alla realizzazione del gasdotto del Mar Baltico, che anzi, con l’ultima crisi in Ucraina sembra essersi impantanato nella costruzione, ha riacceso i fari sulle rotte artiche.

Queste sono quelle vie per il commercio marittimo mondiale che, a causa del riscaldamento globale, si stanno aprendo nel Mar del Nord.

Lo scioglimento della calotta artica sta infatti aprendo per periodi sempre più lunghi durante l’anno il Passaggio a Nord Ovest, il Passaggio a Nord Est e la Rotta Transpolare. Queste vie, se percorribili per l’intera durata dell’anno con naviglio commerciale comune, sarebbero una vera e propria rivoluzione per il commercio mondiale.

La cosiddetta rotta artica potrebbe accorciare notevolmente il viaggio di una nave asiatica verso i porti del Vecchio Continente ed in più eviterebbe il transito dai chokepoints del “sud” e dalle loro ben note fragilità. Per una nave in viaggio dalla Cina ai porti dal nord Europa si stima che la rotta artica è il 20% più veloce e il 40% più corta. La percorrenza è infatti di circa 12,800 chilometri contro i circa 21 mila chilometri del tragitto tramite il Canale di Suez. Certo al momento la criticità maggiore è una navigabilità limitata a 2-3 mesi annui, ma la novità è appunto data dal fatto che, secondo gli esperti, i cambiamenti climatici faranno si che nel 2050 tale rotta sarà libera dai ghiacci e navigabile tutto l’anno.

Non a caso il ministero dell’Energia russo a seguito dell’incidente di Suez ha affermato “la rotta del mare del Nord ha un alto potenziale di espansione del volume di trasporto merci, consentendo di ridurre significativamente la durata del trasporto di merci dall’Asia all’Europa”.

Gli ha fatto eco Vladimir Panov, rappresentante speciale per lo sviluppo artico di Rosatom, sostenendo che “lo sviluppo della rotta del Mare del Nord protegge dai rischi logistici e rende il commercio globale più sostenibile. Indubbiamente, paesi asiatici come Cina, Giappone e Corea del Sud terranno in considerazione il precedente del blocco del Canale di Suez nei loro piani strategici a lungo termine”.

Come tutta la vicenda della crisi di Suez ci insegna, la questione delle rotte artiche però non è un problema solo commerciale.

La geopolitica über alles. Infatti la questione degli interessi commerciali sull’Artico interseca strettamente gli interessi strategici di Mosca. L’artico ad ora per la Russia vale più del 10% del Pil ed il 20% delle esportazioni, ma in prospettiva sarà una vera e propria assicurazione sulla vita per i russi. Mosca possiede più del 53% di terre che affacciano sull’Artico ed è senza dubbio il player, con gli Usa, di maggior peso tra i Paesi rivieraschi (Norvegia, Canada, Danimarca ed appunto Russia e Stati Uniti) che possono avanzare pretese territoriali sull’area. Un’area che secondo l’US Geological Survey possiede il 40% delle riserve mondiali tra petrolio e gas, per un valore di circa 20 trilioni di dollari. In più l’area si stima possedere il 30% di tutte le risorse naturali globali. Una ricchezza enorme.

Per la Russia si capisce quindi che è vitale garantirsi il controllo tanto di ciò che avviene sulla superficie delle acque del Mar del Nord, ovvero i traffici commerciali, quanto ciò che è sotto i fondali, ossia le enormi risorse minerarie.

Quello che interessa rilevare è che le dichiarazioni di Mosca sull’Artico seguite al blocco di Suez non sono dichiarazioni estemporanee ma un copione di una partita vitale per la Russia. Infatti per garantirsi il controllo delle acque artiche Mosca segue una duplice strategia: legale e militare.

Sull’Artico Mosca ha rivendicazioni riguardanti la piattaforma continentale e reclama sovranità sulle dorsali Lomonosov e Mendeleev, considerate due prolungamenti sottomarini della massa continentale eurasiatica. Tale rivendicazione garantirebbe così lo sfruttamento delle risorse di idrocarburi e minerarie di un’area compresa tra il suo perimetro costiero e il Polo Nord.

Al fine di perseguire legalmente le rivendicazioni sulla piattaforma continentale la Russia ha ratificato il trattato UNCLOS nel 1997 ed è membro del Consiglio artico (in cui l’Italia è osservatrice). Le rivendicazioni russe su queste aree spesso vanno in sovrapposizione a rivendicazioni degli altri Stati artici e creano controversie internazionali. L’ultima ad esempio nel 2020 è sorta dopo che Mosca ha allargato la rivendicazione sui fondali marini del Mar Glaciale Artico fino alle ZEE del Canada e della Groenlandia. Sulla controversia quindi si occupa la CLCS (Commission on the Limits of the Continental Shelf), istituzione nata dall’UNCLOS e deputata a risolvere proprio tali situazioni.

Parallelamente alle rivendicazioni giuridiche l’Artico è vitale per Mosca e di conseguenza da difendere a qualsiasi costo: quindi la strategia muscolare.

Essendo una, se non la, nazione artica per eccellenza, la Federazione russa ha dispiegato un imponente apparato militare in questa vastissima area. Ad esempio Mosca ha trasformato la penisola di Kola, nell’estremità nordoccidentale a ridosso dei confini Nato, in una vera e propria fortezza ammassando circa 200 navi da guerra, 20 sommergibili atomici e 1830 testate nucleari. Inoltre Mosca ha creato reparti specializzati nella guerra artica, un tipo di conflitto facilmente intuibile fuori dalla portata di molti dato il contesto geografico estremo. Mosca sta riattivando una serie di infrastrutture (porti ed aeroporti) di epoca sovietica e costruendone di nuovi che corrono parallelamente alla rotta commerciale artica.

La partita artica è assai complicata poiché alle posizioni russe fanno ovviamente resistenza gli altri Stati artici, con gli Usa e la Nato in prima linea a controllare le velleità di Mosca nel profondo nord.

Ma a questa partita vitale per i russi e fondamentale per molti, si interseca la grande sfida di questo secolo: la Belt and road Initiative o nuove Vie della Seta.

La presenza cinese nell’Artico non è un mistero infatti se Mosca mette il mare, le merci soprattutto sono cinesi. La tratta si capisce quindi essere strategica per Pechino. Di conseguenza la Cina, più di chiunque, altro sta investendo enormemente in quest’area. Gli investimenti sono principalmente infrastrutturali, ed avvengono con tutti. In particolare collaborando strettamente con i russi da cui Pechino si approvvigiona energeticamente attraverso alcune infrastrutture che portano il gas siberiano (la pipline Power of Siberia) e del Mar del Nord (l’impianto di liquefazione Arctic LNG 2). Ma al contempo il Dragone investe in tutti gli altri Paesi artici particolarmente in Groenlandia, Finlandia e Islanda.

La chiusura di Suez non evidenzia quindi solo la fragilità del sud del mondo, delle catene del valore globale e dei chokepoints, ma riporta l’attenzione sulle fragilità dell’estremo nord, mostrando scenari che sembrano lontani ma coinvolgono tutti, Italia compresa. Il futuro del mondo si gioca ai poli.

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