Nonostante le analisi geopolitiche si concentrino sulle terre rare e quelle economiche sull’oro, secondo Javier Blas – esperto di materie prime e autore di The World for Sale – il “metallo del momento” è un altro: l’alluminio, utilizzatissimo in pressoché ogni settore dell’economia reale, dall’industria degli imballaggi alla manifattura degli smartphone, fino alla costruzione di aerei e veicoli elettrici. Tra i metalli, solo il ferro viene consumato di più.
Secondo Blas, il mercato globale dell’alluminio sta entrando in una fase “decisiva”: una crisi dell’offerta oppure una maggiore concentrazione della sua produzione nelle mani della Cina; o, ancora, entrambe le cose.
QUANTO VALE L’ALLUMINIO…
L’alluminio si scambia attualmente a quasi 2900 dollari alla tonnellata, il massimo da tre anni. È un prezzo elevato rispetto alla media degli ultimi trentacinque anni, anche se lontano dal record assoluto.
… E QUANTO COSTA PRODURLO
Per capire la “criticità” dell’alluminio, al di là delle numerosissime applicazioni, bisogna conoscerne le modalità di produzione, almeno a grandissime linee.
I depositi di bauxite, la roccia da cui si ottiene l’allumina e conseguentemente l’alluminio, non sono rari. Ma i processi necessari a ottenere il metallo nella sua forma pura sono complessi e costosi: non a caso, l’alluminio veniva considerato un metallo prezioso fino a un centinaio di anni fa, e le cose iniziarono a cambiare solo a seguito dell’invenzione di un nuovo sistema di raffinazione sul finire dell’Ottocento. Ancora oggi, comunque, la produzione di alluminio consuma moltissima energia, al punto che il metallo viene soprannominato “elettricità solida”: per ottenere una tonnellata di alluminio si utilizza la stessa elettricità consumata in un anno da cinque abitazioni in Germania.
IL RUOLO DELLA CINA
Grazie a un’ampia capacità a carbone, che le garantisce tanta elettricità a basso prezzo, la Cina è arrivata a dominare il mercato mondiale dell’alluminio: nel 2024 ha prodotto 43 milioni di tonnellate (la domanda globale ammonta a poco più di 100 milioni), contro gli appena 6 milioni di venticinque anni fa. Non ne produrrà tanto più di così, però, perché le autorità hanno imposto un tetto massimo di capacità a 45 milioni di tonnellate, che sarà raggiunto nel 2026.
CRISI IN VISTA?
La Cina conterrà la sua produzione, insomma, ma la domanda globale di alluminio è forte e sta crescendo di 2-3 milioni di tonnellate all’anno: potrebbe aumentare ancora, peraltro, per via della tendenza alla sostituzione del rame (i cui prezzi sono ai massimi storici) con l’alluminio in tutti i casi in cui è possibile. Nonostante la richiesta, le fonderie al di fuori della Cina, e specialmente quelle in Europa, faticano a produrre a causa dei prezzi elevati dell’elettricità.
A meno che non si verifichi un aumento della produzione da qualche parte del mondo oppure una crisi economica che ne faccia diminuire i consumi, dunque, nel giro di un paio d’anni lo squilibrio tra domanda e offerta potrebbe far schizzare i prezzi dell’alluminio verso il record di 4000 dollari alla tonnellata.
IL FUTURO DELL’ALLUMINIO È IN INDONESIA?
Quell’aumento della produzione appena menzionato potrebbe avvenire in Indonesia, dove le società cinesi stanno costruendo le fonderie che non possono più aprire in patria per via del tetto alla capacità, replicando quanto già successo una decina d’anni fa con il nichel (di cui l’Indonesia, appunto, è oggi una delle massime produttrici mondiali, grazie alla Cina).
L’Indonesia ha le condizioni giuste per l’installazione dell’industria alluminifera: elettricità a basso prezzo garantita dalle centrali a carbone, manodopera economica e disattenzione per le normative ambientali e climatiche. Secondo Blas, se il trasferimento della capacità cinese avrà successo, entro il 2030 l’Indonesia diventerà il quarto maggiore produttore al mondo di alluminio, dopo Cina, India e Russia.
Non è detto, però, che il paese riuscirà a replicare i risultati ottenuti con il nichel: innanzitutto perché i costi di costruzione di una fonderia sono più alti rispetto alla Cina, e poi perché le società cinesi – a differenza del passato – non stanno trasferendo tecnologie metallurgiche avanzate. Pechino, peraltro, sta puntando anche sull’Angola, dove intende aprire degli stabilimenti alimentati dalle centrali idroelettriche.






