Dopo 3 mesi di audizioni, la legge sull’acqua pubblica a firma della deputata grillina Federica Daga ha superato il primo step in Commissione Ambiente. La legge che persegue “una gestione pubblica partecipativa e trasparente del bene comune costituito dall’acqua” approderà a marzo in parlamento ma prima dovrà affrontare lo scoglio di oltre 250 emendamenti presentati in Commissione, molti a firma Lega. Nel frattempo, i sindacati e le società coinvolte nel provvedimento protestano. Soprattutto le imprese lamentano l’impatto economico negativo in quanto quelle che hanno già in programma investimenti nei propri Piani industriali, subirebbero uno stop con rilevanti impatti sul Pil, sull’occupazione diretta e sull’indotto. Mentre anche in casa della Lega c’è chi pensa di rivedere l’impianto della riforma.
COSA PREVEDE LA RIFORMA DELL’ACQUA PUBBLICA
All’entrata in vigore della legge, tutte le aziende dovrebbero essere ripubblicizzate grazie a quote del Ministero Ambiente, interrompendo al 31 dicembre 2020 tutte le concessioni esistenti. La proposta di legge prevede inoltre la trasformazione dei gestori in società di diritto pubblico e il finanziamento del settore a carico della fiscalità generale, spostando la politica tariffaria dall’Arera al Ministero dell’Ambiente. Secondo un paper redatto dall’Istituto Bruno Leoni dal titolo “L’acqua è già pubblica! Perché la riforma dell’acqua fa male agli investimenti e all’ambiente”, la politicizzazione della tariffa metterebbe in crisi un sistema che ha trovato un equilibrio e renderebbe più incerti e costosi i nuovi investimenti, necessari soprattutto nei servizi di fognatura e depurazione.
ACQUA PUBBLICA, UNA PRECISAZIONE
Si parla tanto di ripubblicizzare il servizio idrico, ma la larga maggioranza dei gestori è di fatto a capitale interamente pubblico e tutti quelli a capitale misto sono a controllo pubblico, sottolinea il centro studi diretto da Alberto Mingardi. I gestori puramente privati sono ormai una eccezione in un contesto pressoché pubblicistico. Proprio per questo l’introduzione di nuovi requisiti sulla forma giuridica dei soggetti gestori non avrebbe impatto sul controllo di fatto, ma determinerebbe un rilevante costo per l’indennizzo degli attuali gestori (quantificabile in circa 15 miliardi di euro) secondo quanto riportato dal paper dell’Ibl.
LE AZIENDE ATTUALI GESTORI DEL SERVIZIO
Come scritto da Start Magazine, in Italia le società che gestiscono i servizi idrici sono, secondo i dati Arera, 2.033 (sono compresi anche i comuni). Tra le aziende che dovranno rinunciare a gestire i servizi idrici ci sono Acea, Hera, Iren Acqua, A2A ciclo idrico, 2i Rete Gas, Acsm-Agam, Ecotec, Gestione Acqua, Girgenti acque, Hidrogest, Ireti, Italgas acqua, Nuove acque, Publiacqua.
I COSTI UNA TANTUM DELLA RIFORMA
La scadenza anticipata della concessione e la conseguente espulsione dei soci privati sarebbe equivalente a un esproprio, ai danni sia dei soci dei pochi gestori indipendenti rimasti, sia dei soci di minoranza delle società quotate e miste, stimmatizza anche il report Ibl. Secondo la società Oxera, l’anticipo delle scadenze concessorie richiederebbe un indennizzo una tantum stimabile nella forchetta 8,7-10,6 miliardi di euro, a cui si aggiungerebbero oltre 3 miliardi di euro per il rimborso del debito finanziario a carico degli enti locali e circa 2 miliardi per i mancati introiti da canoni di concessione.
A CARICO DELLO STATO ERGO DEI CITTADINI
Come sottolinea lo studio Ibl curato da Cosimo Melella e Carlo Stagnaro, queste risorse sarebbero a carico dello Stato che per far fronte all’esborso coprirebbe tale spesa tramite un aumento delle tariffe, della tassazione e/o del debito pubblico.
RIPUBBLICIZZARE I GESTORI INCIDERÀ SUL DEBITO PUBBLICO
Oltre all’uscita una tantum connessa alla decadenza anticipata delle concessioni in essere, il ddl Daga determina anche un altro, macroscopico effetto di finanza pubblica. Se la riforma fosse approvata e i gestori del servizio fossero ripubblicizzati, quest’ultimi sarebbero dunque riclassificati ai fini statistici all’interno del perimetro pubblico. In tal caso, i debiti dei gestori idrici andrebbero consolidati nel bilancio degli enti controllanti (e quindi andrebbero, direttamente o indirettamente, a contribuire al debito pubblico), analogamente ai risultati della gestione (che avrebbero dunque, direttamente o indirettamente, effetto sul deficit).
SI PARLA DI UN PUNTO DI PIL
Nel report dell’Istituto Bruno Leoni si fa riferimento in particolare a un’indagine sulle maggiori imprese monoutility che ha censito, nel 2015, un’esposizione debitoria complessiva pari a circa 11 miliardi di euro. Il campione di riferimento rappresentava all’incirca il 70% del fatturato del settore nel 2015, con un rapporto debito/fatturato pari a circa 2. Se il dato restasse pressoché costante nel tempo, si può stimare un’esposizione debitoria nel 2019 pari a oltre 17 miliardi di euro, che andrebbe consolidata nel debito pubblico (facendone aumentare il livello in misura pari ad almeno un punto di Pil).
ULTERIORI COSTI PER GLI INVESTIMENTI NECESSARI
Oltre alla gestione pubblica, la riforma Daga sull’acqua prevede degli investimenti per garantire il consumo minimo vitale (art.12) oltre a investimenti nel servizio idrico integrato, con particolare riferimento alla ristrutturazione della rete idrica (art.13). Per finanziare questi investimenti necessari occorreranno 2-4 miliardi di euro l’anno che finirebbero altresì ad appesantire il debito pubblico.