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Dedollarizzazione

Perché Wall Street e Casa Bianca preferiscono un dollaro debole

Il commento dell'editorialista Guido Salerno Aletta

Il commento dell’editorialista Guido Salerno Aletta

Il dollaro sta prendendo quota: ieri ne bastavano 1,17 per fare un euro. La rivalutazione è un segnale dello stato di buona salute dell’economia americana, che continua ad accelerare il ritmo di crescita, mentre quella europea rallenta. Anche la Germania si avverte la frenata: nel mese di giugno, secondo i dati diffusi ieri da Destatis, l’Istituto ufficiale di statistica, gli ordinativi dell’industria sono diminuiti del 4% rispetto al mese precedente. Così come è accaduto per il rallentamento della crescita italiana comunicato dall’Istat la scorsa settimana, ancora una volta è l’export a cedere: in Germania, gli ordini domestici sono scesi del 2,8% mentre quelli esteri sono diminuiti del 4,7%.

Gioca a favore del dollaro forte anche il differenziale sui tassi, ormai nettamente a favore degli impieghi sul dollaro: la stretta della Fed che drena liquidità ormai da mesi, e gli interessi sul decennale del Tesoro statunitense che sono ormai stabilmente superiori al 3% segnano una distanza apparentemente incolmabile tra le due sponde dell’Atlantico.

Il reshoring dei capitali detenuti all’estero dalle multinazionali americane consente di affrontare con scioltezza il taglio delle tasse sugli utili delle imprese e sui redditi delle famiglie che è stato finanziato completamente in disavanzo. E’ una mole di risorse che consente di bilanciare sia le recenti vendite di Treasury operate da parte della Russia, che a maggio è scomparsa dall’elenco dei primi 23 Paesi detentori, temendo una possibile escalation delle misure finanziarie volte a metterla alle strette dopo l’annessione dell’Ucraina, sia la stasi di nuovi investimenti cinesi che da dicembre 2017 si sono stabilizzati attorno ai 1.180 miliardi di dollari.

Infine, ci sono le prime conseguenze dei dazi imposti dall’Amministrazione Trump, principalmente sull’alluminio e l’acciaio: di fronte ad una grande capacità produttiva interna inutilizzata, si va verso un ribilanciamento degli approvvigionamenti a favore di una crescita interna.
Attraverso la imposizione di dazi, soprattutto alla Cina, l’Amministrazione Trump cerca non solo di riequilibrare la bilancia commerciale, quanto di evitare che il maggiore spazio fornito alla domanda delle famiglie mediante il taglio delle tasse venga soddisfatto attraverso un aumento delle importazioni. D’altra parte, l’altro pistone della crescita interna, rappresentato dal settore delle costruzioni immobiliari, è ancora reduce dagli eccessi del primo decennio del secolo per poter essere stressato.

Come già accadde nel ’29, quando li impose il Presidente americano Herbert Hoover che fece passare lo Smoot-Hawley Tariff Act, i dazi all’importazione rappresentano una mediazione: tra gli interessi di Wall Street, che chiede un dollaro forte e tassi di interesse interessanti per poter raccogliere capitali dal mondo intero, e quelli di Main Street che chiede un dollaro debole per evitare che la domanda sia soddisfatta con le importazioni e non con la produzione interna. Già allora, enormi quantità di capitale affluirono a New York, contribuendo ad alimentare la bolla speculativa dei valori borsistici. Ai prezzi stabili dei prodotti agricoli corrispose un aumento spropositato di quello dei titoli. Qui si giocherà il destino della Recovery americana: la capacità di riportare finalmente i capitali verso la economia reale, nella manifattura e non nei settori FIRE (Finance, Insurance, Real Estate): solo così si avrà la rivincita della classe media, che fu il bastione della Old Economy, e che ora rappresenta la principale base elettorale di Donald Trump.

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