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Vi spiego che cosa cela il dossier Carige

Che cosa succederà a Carige? Il commento di Gianfranco Polillo

 

Dove non poté la ragione, hanno supplito le scadenze elettorale. A Banca Carige, dopo la ritirata di BlackRock – troppo complicata ed incerta la politica italiana – la vituperata Bce ha concesso altro tempo. Fosse prevalsa la pignoleria, essendo scaduto il termine ultimo del 17 maggio, la soluzione, tutt’altro che brillante, sarebbe stata un Mps bis. Brutta gatta da pelare, per i 5stelle, dopo le accuse lanciate contro la precedente gestione politica del dossier banche. Ma anche una iattura per le finanze italiane. Intelligenza ha voluto, invece, che non si seguisse una strada che dire fallimentare è dire poco.

La differenza con il caso delle Banche venete e delle altre coinvolte nello stesso insolito destino (Banca Marche, Etruria, Carichieti e Cariferrara) è evidente. Allora la Commissione europea forzò per il bail-in, determinando un contraccolpo micidiale. Che favorì soprattutto i 5stelle. Divenuti, in breve, i paladini dei truffati. Il tutto condito dalla loro continua polemica anti casta. Di cui le crisi bancarie divennero, al tempo stesso, fondamento e giustificazione. Salvo poi scoprire l’illegittimità di quelle decisioni, acclarate a babbo morto, dalla giustizia europea.

La Bce questa volta ha voluto evitare di ripetere lo stesso errore, concedendo più tempo, nella speranza che qualche cavaliere bianco appaia all’orizzonte. Si parla di Warburg Pincus, di Värde e di BlackStone. Tutti pretendenti stranieri come si vede. Il che è comprensibile. Le grandi banche italiane hanno già dato tanto per il Fondo interbancario e di conseguenza tendono a limitare ulteriori eventuali esborsi. Tanto più che Carige è troppo piccola per continuare ad operare con successo. Di conseguenza la fuoriuscita della crisi non può che passare per una soluzione di sistema. Vale a dire un processo di aggregazione che veda coinvolti altri Istituti di credito, in grado di assicurare una governance adeguata ed un piano industriale che stia in piedi.

Al momento le posizioni restano guardinghe. “Per quanto mi riguarda escludo totalmente i contributi volontari“, ha detto Carlo Messina, numero uno di Intesa Sanpaolo. Per poi aggiungere: “Significherebbe portare il Fidt (Fondo interbancario) ad avere il controllo di questa banca e questo non è sano”. Più vago Jean-Pierre Mustier, capo azienda di Unicredit, che aveva espresso la disponibilità a un’operazione di sistema. Auspicando che ciascun istituto avrebbe dovuto “contribuire in modo proporzionale”. Ancora più riservati Bper ed Ubi Banca, per alcuni commentatori, possibili promessi sposi. Più un auspicio, che non una certezza. Il tutto basato sulla semplice osservazione che le distanze, in termini di patrimonio e di “fatturato”, tra questi piccoli istituti e le due grandi corazzate italiane – Unicredit e Intesa Sanpaolo – sono siderali.

Sarà questo, alla fine, il luminoso destino? Difficile rispondere. Su tutto pesa il responso delle urne: sempre più la madre di tutte le battaglie, che una semplice competizione elettorale.

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