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Credit Suisse

Vi racconto tutti i casini di Crédit Suisse

In pochi mesi il Crédit Suisse è rimasto impigliato in tre gravi incidenti di percorso. Ecco quali. L'approfondimento di Teo Dalavecuras

 

Nell’arco di quattro mesi scarsi il Crédit Suisse è rimasto impigliato in tre incidenti di percorso piuttosto gravi. Nel primo, la svalutazione per circa 450 milioni di dollari della partecipazione di minoranza in York Capital Management, annunciata a fine novembre scorso e spiegata con un cambiamento di strategia della partecipata americana, spiegazione a dire il vero assai poco esplicativa ma tant’è. Il vero problema è che quei 450 milioni, corrispondenti a poco meno di un quarto degli utili dell’ultimo esercizio, sono poca cosa rispetto ai miliardi di perdite che potrebbero emergere dagli altri due “incidenti”, registrati nei primi mesi di quest’anno: il fallimento dell’anglo australiana Greensill, operante nel settore del finanziamento del circolante delle imprese, nella quale duefondi della grande banca svizzera avevano scommesso 10 miliardi di dollari, trovandosi oggi a dover affrontare la minaccia di richieste di danni dagli investitori; e poi il botto più rumoroso, l’insolvenza di Archegos, “family office” di Bill Hwang, il finanziere newyorchese di origine coreana che, con mezzi propri per 20 miliardi, si era esposto in borsa per un importo stimato tra i 25 e i 75 miliardi. Con una leva di 5 volte: a ogni dollaro di risorse proprie di Archegos se ne aggiungevano quattro prestati dalle banche. Pare che tutte le maggiori banche di Wall Street giocassero al tavolo con Hwang. Crédit Suisse, da sempre attivo a Wall Street, secondo The Financial Times rischia di perdere intorno ai 4 miliardi di dollari (la stessa banca ha poi quantificato la perdita per l’insolvenza Archegos in 4,4 miliardi di franchi). In pochissimo tempo le azioni della banca svizzera hanno perso il 15% e di analoga percentuale sono calate le quotazioni di Nomura, la grande banca giapponese anch’essa coinvolta nel festino finito male (della partecipazione delle grandi banche americane si sa o si riferisce molto meno).

Come accade sempre in questi casi, quando la quotazione di alcuni titoli nei quali Archegos era massicciamente investito (da ViacomCBS ad azioni cinesi) ha cominciato a indebolirsi, le banche hanno chiesto un’integrazione delle garanzie ma Hwang non ha potuto far fronte alle richieste. Sempre secondo la ricostruzione di Ft, nei giorni scorsi le banche coinvolte avevano trovato un accordo per liquidare gradualmente la massa di azioni in garanzia evitando terremoti sul mercato, ma il patto ha tenuto l’espace d’un matin. In un solo giorno, venerdì 26 marzo, sono state liquidate posizioni per una ventina di miliardi di dollari con le immaginabili conseguenze sul prezzo dei titoli venduti; Crédit Suisse e Nomura sono rimasti col cerino in mano, almeno per il momento.

Storie come questa si sviluppano nell’arco di anni e riservano spesso sorprese. Ce n’è già abbastanza, però, per due ordini di considerazioni.

Le prime riguardano la banca svizzera. Gli azionisti dovranno elaborare il lutto e rassegnarsi a un dividendo ridotto o sospeso e al rinvio – quanto meno – del programma di acquisto di azioni proprie già deliberato per 1,5 miliardi di franchi: non sembra questo il momento migliore per ridurre la base di capitale della banca, e gli acquisti di azioni proprie, in sostanza, questo sono. Qualcosa inevitabilmente succederà anche nell’assetto di vertice della banca, ci saranno provvedimenti sui bonus e magari qualche intervento a livello organizzativo, una riflessione sul livello di efficienza del “risk management” e forse sul “business model” ma, come è naturale, tutto questo accadrà al riparo dal chiacchiericcio che accompagna queste vicende. Di una cosa si può esser certi: a decidere sarà lo stesso ceto di burocrati transnazionali che si autodefiniscono banchieri, i quali non avranno nessun problema a “ridursi” i bonus né a offrire qualche capro espiatorio all’opinione pubblica: invidiabile, la professione del capro espiatorio. Salvo casi estremi come quello del povero Ernst Kuhrmeier: vera vittima del cosiddetto scandalo “Texon – Credito svizzero” scoppiato nella primavera di 44 anni fa a Chiasso. Praticamente linciato sulla piazza mediatica e – sia pure nella misura relativamente contenuta prevista dalla legge elvetica – nell’aula del tribunale penale, condannato dalla propria morale professionale a scontare in silenzio colpe non solo sue, era sopravvissuto pochi giorni alla sentenza della corte d’Assise ticinese. Ma erano altri tempi.

C’è poi una considerazione che non riguarda specificamente né il Crédit Suisse né le altre banche coinvolte nell’insolvenza di Archegos. È una considerazione di senso comune fondata su aspetti macroscopici della realtà finanziaria.

Si sono lette nei giorni scorsi vibranti denunce della propensione delle banche a finanziare la “speculazione”, anziché l’attività produttiva e in particolare i settori più “sostenibili”, a emissioni zero eccetera eccetera.

Spesso stucchevoli, col passare del tempo queste denunce diventano autentica disinformazione. Chiunque guardi le cose con un minimo di distanza, sufficiente a collocarle nel loro contesto, sa bene che i settori a vario titolo sostenibili sono finanziati più che abbondantemente. Un esempio a caso: se la Tesla a fine 2020 capitalizzava 590 miliardi di dollari, cinque volte la capitalizzazione totale delle prime cinque case automobilistiche del mondo, mentre Mittal si accontentava di mezzo miliardo per la metà dell’Ilva che è pur sempre il più grande complesso siderurgico d’Europa, un motivo ci sarà, anche in termini di diversa disponibilità di risorse finanziarie: una capitalizzazione di 590 miliardi significa che 590 miliardi, in ultima analisi, sono sottratti a qualsiasi altro impiego perché sono appunto immobilizzati nel capitale di Tesla. E sorvoliamo pure sul fatto che gli “utili” della società di Elon Musk, “sostenibile” per definizione, vengono solo, per il momento, dalle “insostenibili” imprese cui il mago Musk vende i “diritti” di inquinare…

In ogni caso, la capacità di assorbimento di mezzi finanziari da parte del settore produttivo – sostenibile o meno – ha limiti oggettivi, mentre la capacità degli istituti di emissione di creare liquidità e di disincentivarne la tesaurizzazione con leve come i tassi d’interesse negativi sembra non avere limite. Quanto alle imprese bancarie, sono esposte a una duplice pressione, quella derivante dalla virtuale chiusura, per effetto dei tassi negativi, della “forbice” dei tassi, un tempo principale fonte di ricavi, e quella derivante dal continuo incremento dei costi amministrativi della compliance, ossia dei servizi interni dedicati all’osservanza della sempre più minuta regolamentazione di tutti gli aspetti dell’attività: adempimenti in buona parte inutili generati dalla cattiva coscienza dei regolatori dopo la crisi dei subprime del 2007-2008, crisi che, nata in America, ha fatto danni non ancora completamente riassorbiti in Europa.

Conseguenza della duplice pressione è da una parte l’indebolimento delle funzioni cui è demandata la conoscenza del mercato e la selezione dei prodotti, a beneficio dei costosi e pesanti apparati burocratici della compliance, proprio nel momento in cui di queste funzioni in senso lato “commerciali” ci sarebbe disperato bisogno, per selezionare i prodotti finanziari che spuntano come funghi sull’onda della politica delle banche centrali. Che in questa situazione tante anime belle facciano la predica alle banche perché invece di finanziare l’”economia reale” finanziano la “speculazione” continua a lasciarmi – mi si perdoni l’ingenuità – sconcertato.

Indipendentemente dal merito dei singoli “incidenti di percorso”, è ragionevole prevedere che le dinamiche sopra evocate, in primo luogo burocratizzazione crescente dell’attività bancaria “ordinaria”, in secondo luogo duplice rischiosità dell’attività di investimento, da un lato per le risorse professionali relativamente inadeguate disponibili e dall’altro per l’affollamento di prodotti e di attori nell’ecosistema finanziario globale, in terzo luogo l’assenza di alternative, oltre certi limiti, al finanziamento della speculazione, tendono ad accrescere la probabilità di episodi come quelli che hanno coinvolto il Crédit Suisse negli ultimi mesi: distinguere i funghi commestibili dai velenosi è un mestiere complicato, anche perché si assomigliano tutti: il componente principale è sempre l’acqua.

Egualmente, non è improbabile che al ripetersi di eventi indesiderati la risposta delle autorità non possa che essere ripetitiva: imposizione di ulteriori appesantimenti burocratici e ulteriore immissione di liquidità nel sistema. In parole ancora più povere, circolo vizioso. Almeno in questo senso, l’”economia circolare” è da anni una realtà.

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