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Ecco la giungla del fisco italiano

Il fisco italiano è una giungla inestricabile, in cui è difficile avventurarsi, ma il Mef ha messo appunto una complessa banca dati. L'analisi di Gianfranco Polillo

Altro che “la selva oscura” di cui parla il divin poeta, il fisco italiano è una giungla inestricabile. In cui è difficile avventurarsi, senza una guida opportuna. In quell’intrigo di vegetazione, il rischio di perdersi è più che probabile. Le possibili mappe sono già superate giorno dopo giorno, sotto l’incalzare di una realtà economica, che non dà tregua, e la lentezza della politica. Con quel suo soffermarsi su un mondo che esiste sempre più, nel riflesso di un’ideologia, che si è trasformata in quella “falsa coscienza”, di cui discutevano i grandi filosofi dell’Ottocento.

Nel nostro viaggio, non ci sono guide. Tanto meno i cultori della scienza di finanza: commercialisti, fiscalisti, fini conoscitori di articoli e codicilli. Nella foresta, come insegna l’esperienza, è facile vedere l’albero. Noi, invece, vogliamo vedere la foresta. E per vederla dobbiamo prescindere dall’analisi di una legislazione talmente vasta da far perdere la testa, per ricorrere agli strumenti della statistica e delle analisi quantitative. Per battere sul tempo quel complesso burocratico-legislativo che, negli anni, ha alimentato mostri. Per fortuna un alleato, forse involontario, esiste: il Dipartimento finanze del Mef. Ha messo appunto una complessa banca dati, seppur non facile da sondare, dalla quale poter attingere informazioni che possono aiutare.

Le nostre analisi riguarderanno le imposte pagate nel 2018. Scelta obbligata, visto che i dati forniti dal Mef si riferiscono alle dichiarazioni di reddito 2019. Allora la pressione fiscale, secondo i dati della Banca d’Italia, era pari al 41,8 per cento del Pil. Peggio dell’Italia, solo il Belgio (46,6 per cento) e la Francia (48,5 per cento). Il resto dell’Eurozona, leggermente meglio (41,5 per cento); ancor di più l’intera UE a 28 (40 per cento). Una distanza siderale dal Giappone (32,5 per cento) e Stati Uniti (25 per cento).

Dalla nascita dell’euro (2002) al 2018 la pressione fiscale, in Italia, era aumentata di 2,5 punti di Pil: dal 42,6 al 45,1 per cento del Pil. Non molto si potrebbe dire: ad un ritmo dello 0,16 per cento l’anno. Ma il dato è ingannatore. Nel 2002 la spesa per interessi era pari al 5,4 per cento del Pil. Grazie alla caduta dello spread, a seguito della nascita dell’euro, nel 2018 si era ridotta al 3,6 per cento, con un risparmio di 1,8 per cento del Pil. Nel 2002, sul complesso della spesa, gli interessi pesavano per il 13,1 per cento. Alla fine del 2018 per l’8 per cento. Con un risparmio quindi del 5,1 per cento. Se questi risparmi fossero stati utilizzati per ridurre il carico erariale, avremmo dovuto avere una pressione fiscale pari al 41,5 per cento, al netto dei miglioramenti (0,7 per cento del Pil) intervenuti nel livello del deficit di bilancio. Con una differenza più che sensibile (3,6 per cento del Pil) rispetto al valore certificato da Banca d’Italia.

Perché questo non è avvenuto? Ma perché disboscare la giungla del fisco è opera ciclopica. Ed allora ė stato più semplice utilizzare la rendita dell’euro per aumentare il livello della spesa, al netto degli interessi, cresciuta in misura anche maggiore rispetto al risparmio degli interessi. Mentre quest’ultima era diminuita dell’1,8 per cento del Pil, quella totale (al netto degli interessi) era aumentata del 3,5: ad un ritmo doppio. Con quella corrente che passava dal 37,2 al 41,4 per cento del Pil (più 4,2). E quella in conto capitale che si contraeva dal 4,1 al 3,3 per cento del Pil (meno 0,8). Un grande piccolo disastro.

Ferme restando tutte le critiche al malfunzionamento dell’Unione europea, non v’è dubbio che le responsabilità del ceto politico italiano siano state ben maggiori. Troppo forte la contrapposizione interna tra le forze politiche: nemiche dichiarate di una guerra che nessuno era in grado di vincere. Eccessivi gli interessi di bottega da difendere a discapito di qualsiasi altro valore. Soprattutto quella mancanza di visione dell’interesse nazionale che è necessaria per trasformare i governanti nei padri della Nazione. Difetti che ancora oggi sono scolpiti sulla pietra.

Allora, agli inizi del terzo millennio, vi era anche l’illusione che, con la nascita dell’euro, l’Italia avesse raggiunto la terra promessa. Riflesso condizionato delle difficoltà incontrate per giungere, per il rotto della cuffia, a chiudere il negoziato. L’evento fu quindi salutato nel tripudio generale e nella beota incoscienza di chi credeva di essere entrato in un mondo migliore. Unica voce dissonante quella di Antonio Fazio, allora Governatore della Banca d’Italia, prima di perdersi in complicate vicende personali, che lanciò un allarme, rimasto purtroppo inascoltato. Attenti disse, nel corso di un’audizione parlamentare, quello che ci aspetta non è il paradiso, ma il “purgatorio”. Non facciamoci illusioni, ma operiamo di conseguenza.

L’immobilismo, specie sul terreno fiscale, fu la dimostrazione che quell’avvertimento non era stato colto. Per quasi vent’anni le tasse rimasero, secondo la tesi di Tommaso Padoa Schioppa, ministro dell’economia del Governo Prodi, “bellissime”. Tali da non richiedere intervento alcuno, nonostante il centro-destra avesse più volte tentato una riforma, sempre abortita sugli scogli parlamentari. Ed ecco allora i risultati.

Nel 2018 gli italiani hanno pagato tasse per oltre 522 miliardi, mentre i contributi sociali sono stati pari a 234 miliardi di euro. La loro somma, rapportata al Pil, misura la pressione fiscale. Che è frutto di una specifica elaborazione da parte dell’Istat, sulla base di una metodologia, concordata a livello europeo. Il che spiega la mancata coincidenza tra i dati forniti dal Dipartimento finanza del Mef e quelli dell’Istituto di statistica. Differenza che, in quell’anno, fu quasi pari a 20 miliardi, in percentuale: quasi il 4 per cento del gettito complessivo. Fatto solo statistico? Fino ad un certo punto. I dati del Mef contabilizzano i versamenti effettivi. Ne deriva che nel 2018, su quella base, il possibile ricalcolo della pressione fiscale, intesa come prelievo effettivo sulle tasche del contribuente, salta dal 41,8 per cento, al 42,7 per cento del Pil.

Come abbiamo pagato? Le imposte dirette (Irpef, Ires, Interessi e redditi di capitale) hanno fruttato 247 miliardi, che diventano 264, considerate le imposte locali (addizionali Irpef), pari al 50,6 per cento del gettito complessivo. Quelle indirette (Iva, accise e giochi più altre 13 imposte minori) con un gettito pari a 216 miliardi, che diventano 258 con le imposte locali (Imu e Tasi ed Irap), pari al 49,4 per cento del gettito. Ed è qui nasce un primo problema. Come si ricorderà per anni abbiamo evitato l’aumento dell’IVA, previsto dalle famose misure di salvaguardia. Finché, l’anno scorso, abbiamo assorbito il minor gettito nell’aumento del deficit, nell’illusione di avere un pasto gratis. Che qualcuno pagasse al posto nostro.

La Commissione europea, da tempo, aveva suggerito di fare il contrario. Aumentate, aveva detto, le imposte indirette e diminuite quelle dirette, a compensazione. Apriti cielo: rivolta delle associazioni degli esercenti. Comprensibile. Ma anche più di un pizzico di miopia. L’Iva è una partita di giro, che alla fine si scarica sul consumatore finale. Se l’aliquota aumenta, ovviamente, le vendite possono diminuire a causa dell’incremento del prezzo imposto. Ma se, in parallelo, diminuiscono le imposte personali, il maggior reddito a disposizione del consumatore può far crescere la domanda e compensare le perdite incombenti sugli esercenti. Quindi l’effetto della manovra può essere neutrale. Ed allora perché?

Le differenze riguardano, per così dire, la logica del comportamento. Se il prelievo è alla fonte, come avviene per le imposte dirette, sono altri che decidono i miei margini di libertà. La riduzione del reddito mi impedisce qualsiasi possibile scelta. Se invece aumenta l’IVA posso ancora scegliere tra il consumare ed il risparmiare, tra un bene più costoso e quindi gravato da una maggiore imposta ed uno più a buon mercato. Sono quindi le preferenze del consumatore che fanno la differenza. Discorsi fin troppi sofisticati, rispetto alle contraddizioni di un mostruoso apparato fiscale, com’è il nostro. Ma è bene cominciarli a fare.

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