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Conte

Vi dico chi sta facendo solo ammuina sul salario minimo legale

Genesi e attualità del dibattito sul salario minimo. E chi in Italia indulge a polemichette partitiche. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Dovrà essere Renato Brunetta, nel suo nuovo incarico di presidente del Cnel, ad occuparsi della questione. Come tradurre in italiano la direttiva 2022/2041 del 19 ottobre 2022, “relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea”. Lo farà approfondendo quanto già comunicato con la memoria resa in occasione della sua audizione presso l’XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati, lo scorso 11 luglio. Soprattutto attingendo da quella sua lunga esperienza accademica, essendo stato per molti anni titolare della cattedra di Economia del lavoro, presso diverse Università.

Per fortuna il nostro compito è ben più limitato: ricostruire l’antefatto giuridico e di merito da cui è scaturito quel dibattito sul “salario minimo” o sul “lavoro povero”, che sta dominando le pagine dei principali giornali italiani. E che rischia di diventare il tormentone dei prossimi mesi. In attesa che, con la legge di bilancio, si possa poi in qualche modo provvedere. Ricostruzione interessante per mettere in luce ritardi e contraddizioni. Ma anche l’inevitabile strumentalità, che di solito accompagna, vicende così dense dal punto di vista politico. Si pensi solo a quello che fu lo scontro politico e sociale sulla “scala mobile” ai tempi in cui Bettino Craxi era il presidente del consiglio.

I primi accenni al problema del “salario minimo” risalgono al 2017. Fu nel vertice di Göteborg che fu stabilito che dovevano essere “garantite retribuzioni minime adeguate, che soddisfino i bisogni del lavoratore e della sua famiglia in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l’accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro”. Solo tre anni dopo (settembre 2020) sarà la presidente von der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, a ribadire che “tutti devono poter accedere a salari minimi, sia attraverso contratti collettivi o salari minimi legali.” Si gettavano così le basi di quella che sarà la Proposta di Direttiva del Parlamento e del Consiglio, che sarà resa pubblica il 28 Ottobre 2020, (COM(2020) 682 final).

Allora, in Italia, si era ai titoli di coda del Conte II. Nunzia Catalfo, dei 5 stelle, era la ministra del Lavoro. Era stata la madrina del reddito di cittadinanza, ma sul fronte del “salario minimo” le sue posizioni erano state più che ragionevoli. Sebbene avesse presentato fin dal 2014 una proposta di legge (AS.1697) in cui all’articolo 2 si prevedeva, per il 2015, un salario minimo di 9 euro lordi l’ora. Soglia che lei stessa, in più occasioni, aveva definito trattabile. Inutile aggiungere che da allora sono trascorsi oltre 9 anni. Del salario minimo legale nemmeno l’ombra. Sorprendono quindi le recenti dichiarazioni di Giuseppe Conte. “Il tempo per studiare è scaduto. È il tempo d’agire”. Parole sante considerata quanta acqua sia passata sotto i ponti del Tevere, a due passi da Palazzo Chigi. Di cui lo stesso Conte era stato a lungo il principale inquilino.

Sul fronte europeo, invece, ci sono voluti due anni per trasformare quella proposta di direttiva, di cui si diceva in precedenza, nella Direttiva (UE) 2022/2041 del 19 ottobre 2022, che ora i singoli Parlamenti nazionali sono chiamati a ratificare. Circostanza che ha finito per creare una particolare congiuntura in cui gli impegni europei si sono sommati ai tentativi autarchici di soluzione del problema. L’Europa, in altre parole, ha fatto da traino, riscaldando gli animi di un’opposizione alla ricerca di una possibile bussola politica. Nello stesso mese di ottobre sono state, infatti, presentate ben 5 proposte di legge a firma dei principali leader. Tre da Pd (Laus, Serracchiani e Orlando), una della da Sinistra italiana (Fratoianni) ed una dei 5 stelle (Conte). L’anno successivo si è aggiunta l’iniziativa di Azione (Richetti), ma non di Italia Viva.

Questo quindi il quadro dell’attuale contesa, in cui elementi di “politic” (rapporto tra i partiti) si confondono con quelli della “policy” (merito della questione) in un groviglio che non sarà facile districare. Tanto più se si considerano le diverse impostazioni che già, a livello europeo, si sono appalesate. Confrontando i due testi – quella della proposta iniziale e quella della direttiva approvata – certe differenze balzano agli occhi. Dovute anche al fatto che le parti sociali – sindacati da un lato, padronato dall’altro – non sono riusciti a trovare le necessarie intese.

Nella prima versione, all’articolo 5 si faceva riferimento al “potere d’acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita e dell’incidenza delle imposte e delle prestazioni sociali”. Nella successiva, si accennava, invece, esclusivamente al “potere d’acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita”. Giorgia Meloni, che punta molto sulla riduzione del cuneo fiscale, sarà meno contenta. Ancora più significativa, forse, la seconda differenza. Il passaggio dal 70 all’80 per cento della soglia, (articolo 4) in base alla quale considerare soddisfacente il livello di contrattazione sindacale. Evitando, così, allo Stato l’impegno di dover promuovere ulteriori iniziative a favore della sua diffusione.

Questo è un punto particolarmente delicato. Dall’archivio dei contratti, depositati presso il CNEL, risulta che il 97 per cento degli stessi porta la firma delle tre confederazioni sindacali: CGIL, CISL ed UIL. A meno di non voler ammettere che quelle stesse organizzazioni siano, in qualche modo, responsabili di aver firmato accordi in violazione del salario minimo, se ne deve dedurre che il rischio di un’eventuale infrazione non superi la soglia del 3 per cento dei contratti conclusi. Applicando questa percentuale al numero dei lavoratori dipendenti, pari a 18,405 milioni, secondo l’Istat (maggio 2023) se ne deduce che il numero delle possibile vittime dovrebbe essere contenuto entro le 552 mila unità. Cosa indubbiamente grave, ma che ha poco a che vedere con le cifre evocate (4 milioni di lavoratori) nella polemica corrente.

Il che è indicativo del carattere strumentale di alcune posizioni. Già nel passaggio dalla semplice proposta del 2020 al testo definitivo di due anni dopo, da parte del Parlamento e della Commissione europea, era evidente il peso di una cultura più attenta agli aspetti solidaristici, che non di mercato. Nel dibattito italiano questi aspetti si sono accentuati ed, al tempo stesso, imbarbariti, nel gioco di specchi tra la “politic” e la “policy”. Non sarà quindi facile trovare una soluzione che punti soprattutto a risolvere il problema del cosiddetto “lavoro povero”. Nell’intervista di Giuseppe Conte al Corriere della sera, già citata, la dimostrazione di quest’assunto. Mettere insieme salario minimo, reddito di cittadinanza, superbonus, e Transizione 4.0 per poi lamentarsi “dell’ammanco di decine di miliardi”, ai fini del bilancio pubblico, non è certo un buon viatico per la soluzione del problema.

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