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Verità e frottole sulla procedura d’infrazione evitata. Il commento di Polillo

Il commento dell'editorialista Gianfranco Polillo

 

Per carità non parlate di manovra correttiva. Qualcuno, all’interno del Governo, potrebbe prendersela e ricorrere alle vie legali. Si è trattato di un semplice aggiustamento. Anzi nemmeno di quello. “Bisognava far capire” alla Commissione europea – dice il Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, nella sua intervista a il Corriere della sera – “che maggiori entrate e risparmi di spesa prefiguravano dati contabili diversi da quelli da loro elaborati”. In altre parole: quelle risorse erano lì fin dall’inizio. Dal momento in cui Luigi Di Maio, dall’alto del balcone di Palazzo Chigi, galvanizzava i militanti, radunati in piazza, annunciando la sconfitta della povertà in Italia.

Potenza del linguaggio. In una fase in cui “nomina” non sono più ”consequentia rerum”. Locuzione latina che, come tutte le cose del passato, è stata azzerata dalla retorica dei 5 stelle. Fosse così, saremmo tutti più contenti. Non sarebbero stati sottratti al trasporto pubblico locale quei 300 milioni che servono come il pane. Basti guardare ai treni dei pendolari o alla metropolitana di Roma. Il Sud avrebbe potuto avere risorse maggiori per 500 milioni. La Cassa depositi e prestiti capitale per le sue politiche d’investimento. E va dicendo. L’elenco potrebbe continuare fino a quel totale di 8 miliardi e rotti destinati ad essere congelati nelle pieghe del bilancio dello Stato.

Comunque l’ipotesi di una possibile procedura d’infrazione, fino a ieri sul tappeto, è stata scongiurata. Ed è questa la buona notizia della giornata. Restano tutte le incognite di settembre, quando si tratterà di onorare gli impegni assunti, seppure in modo generico con la nuova lettera, inviata dai responsabili economici del Paese, alla stessa Commissione. Il tempo per pensarci è poco. Si spera sempre nella presenza della vecchia guardia – Jean-Claude Juncker e Pierre Moscovici – nella giuria che dovrà emettere il verdetto. Ma questi ultimi, per quanto ben disposti, non potranno non tener conto dello “spettro che si aggira per l’Europa”: altro che il comunismo di Marx ed Engels, ma il rigorismo di Ursula Von Der Leyen. Non saranno rose e fiori.

Bisognerebbe quindi muoversi per tempo alla ricerca di una possibile strategia. Una credibilità tutta da conquistare, se non si vuole continuare nelle vecchie politiche del passato. Il cui fallimento è conclamato. Il trionfo della regola aurea del Gattopardo: “Deve cambiare tutto, perché niente cambi”. Sfida impegnativa: non c’è che dire. Soprattutto a causa di un ambiente accademico in forte ritardo. Sorprendente l’ultimo intervento di Mario Baldassarri, sulle pagine de Il Sole 24 ore. “Inutile incolpare l’Europa se l’Italia non cresce”: questa la sintesi, evidenziata nel titolo.

Naturalmente, in quest’affermazione, c’è una buona dose di verità. Ma tra una parte e il tutto esiste una notevole differenza. “Siamo l’unico Paese” nell’Eurozona “che, dal 2000 al 2018, ha visto ‘ridursi’ il proprio Pil reale pro-capite del 2,3%”: sostiene l’ex vice-ministro dell’Economia. E fin qui ci siamo. L’anomalia italiana – continua – consiste in “cause strutturali ‘tutte interne’: più bassi investimenti pubblici e privati, più alta spese corrente, risparmio pubblico negativo (disavanzo di parte corrente), produttività totale dei fattori in declino”. Una fotografia nota degli squilibri della finanza pubblica italiana.

Nel ragionamento manca, tuttavia, un elemento centrale. Nessun riferimento all’andamento del saldo con l’estero. Più che positivo dal 2011 in poi. Riflesso contabile di un eccesso di risparmio interno che non si traduce in investimenti e, di conseguenza, contribuisce a determinare gli squilibri strutturali lamentati, anche sul terreno delle pubbliche finanze. È infatti evidente che se le risorse disponibili non sono completamente utilizzate, la crescita complessiva dell’economia non può che rallentare. Da qui una caduta delle entrate fiscali, che ne sono una figlia legittima. Con tutti gli effetti negativi denunciati. Compreso ovviamente l’aumento del rapporto debito-Pil.

Se questo è il quadro, le conclusioni sono evidenti. Il problema italiano non è dato da una carenza di risorse, ma dal grippaggio di alcuni meccanismi di mercato. A loro volta bloccati da fattori diversi, compreso il clima di incertezze programmatiche che incide in negativo sul sistema delle aspettative. Aziende che non investono per carenza di domanda effettiva. Altre scoraggiate dall’eccesso di burocrazia e controlli vessatori. Una pressione fiscale non solo eccessiva, ma ingiustificata vista la cattiva qualità dei beni pubblici forniti dalla Pubblica Amministrazione. E via dicendo. Se non si modifica questo stato di cose, ogni possibile progresso diventa impossibile.

Gli squilibri della finanza pubblica hanno ovviamente un peso. Ma sono il riflesso di questo più generale stato di confusione. Mettervi ordine, anche a costo di aumentare provvisoriamente il deficit, può essere una soluzione innovativa. Sempre che non si seguano, anche questa volta, le orme del vecchio, caro Gattopardo.

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