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Tunisia

Verità e disparità del fisco italiano

L'analisi di Gianfranco Polillo

Per la verità le cose sono un po’ diverse, rispetto al racconto sulle tasse, di Ferruccio de Bortoli. Stando almeno al suo ultimo editoriale su Il Corriere della sera. Mettiamo da parte gli spunti polemici e concentriamoci sull’essenziale. La prima questione è di metodo. Da dove nasce una certa sfiducia nei confronti della legge delega appena varata dal ministro dell’Economia, Daniele Franco? Forse dal fatto che non appare chiaro il disegno complessivo. Vale a dire le caratteristiche che dovrebbe avere il fisco del futuro.

Mario Draghi, solo qualche mese fa, si era speso sull’argomento, ipotizzando il lavoro di una commissione. Com’era avvenuto in Danimarca, aveva detto, illustrando le ragioni di fondo che giustificavano una simile scelta. Strada dimostratesi impraticabile, sebbene nella storia italiana vi fosse stato il precedente della Commissione Cosciani che, negli anni ‘70 aveva gettato le basi – e che basi! – di una riforma complessiva dell’intero sistema. Poi realizzata solo in parte a causa delle difficoltà che da sempre hanno reso incandescente quel teatro di battaglia. Contraddizioni in seno al popolo, che si sono risolte in un compromesso ben poco onorevole. Da un lato licenza di evadere a favore di alcune categorie. Dall’altro una progressività oscura ed esasperata, che ha colpito soprattutto il lavoro dipendente, nei rami alti della distribuzione del reddito.

Diversi i motivi che hanno reso rapidamente obsoleta la proposta del premier. I tempi europei, dato che la riforma fiscale fa parte degli impegni collegati al PNRR. Quindi difficilmente compatibili con quello schema, per quanto necessario. Il gioco d’anticipo del Parlamento che, con il lavoro delle due Commissioni Finanze, di Camera e Senato, ha di fatto bruciato i tempi, producendo quel documento di sintesi posto, successivamente, alla base della delega. Sennonché in quell’elaborato non era contenuto alcun riferimento né alla riforma del catasto, né al riordino delle agevolazioni fiscali.

Aggiornare il catasto è una richiesta pressante della Commissione europea. L’invito non è rivolto solo all’Italia. Spagna e Francia, solo per citare due casi, si trovano più o meno nella stessa situazione. Nella logica europea, tuttavia, il disegno complessivo, la cosa può piacere o meno, è stato più volte esplicitato. Il principio è quello di “tassare le cose”, quindi anche le case, per “non tassare le persone”. Tradotto in soldoni: le imposte sulle case e l’IVA possono anche aumentare, ma alla condizione, posta l’ipotesi dell’invarianza del gettito, che si riduca in proporzione l’Irpef. Una curvatura così potente nella logica sistemica del sistema fiscale può contribuire a ridurre l’area dell’evasione: problema non solo italiano? Forse si. Il problema, se non altro, andrebbe approfondito.

De Bortoli se la prende giustamente contro gli evasori. Difficile dargli torto. Cita in proposito le ultime relazioni “sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva”. L’ultimo documento, che risale al 2021, indica un tax gap “pari a poco meno di 103 miliardi”. Che riferito al Pil 2018, comporta un tasso pari al 5,76 per cento. Più o meno il doppio delle medie europee, quantificate, in genere, intorno al 3 per cento del Pil. Il differenziale è quasi uguale al volume degli interessi, pagati ogni anno, sul debito pubblico italiano. Inaccettabile.

Ma altrettanto inaccettabile è l’andamento della curva dell’Irpef, sulla quale, per la verità, si è poco investigato. “Il 57 per cento dei contribuenti, – scrive l’editorialista del Corriere della sera – secondo l’analisi di Itinerari previdenziali, società presieduta da Alberto Brambilla, versa un’Irpef (dati 2019) pari a soli 15 miliardi, ma costa in salute, a scuola e assistenza ben 174 miliardi. Non si potrà sempre ricorrere al debito. Né ignorare a lungo questioni di equilibrio nella tassazione fra lavoro e rendita. Il 45,9 per cento dei contribuenti versa solo il 2,62 per cento delle tasse. E solo l’1,13 per cento dichiara di guadagnare più di 100 mila euro l’anno”.

Mescolando dati diversi, si rischia di fare confusione. Il Mef – Dipartimento delle finanze – pubblica ogni anno i risultati delle dichiarazioni fiscali. Una massa imponente di dati, anche se non sempre di facile lettura. Giocandoci sopra, si scoprono cose interessanti. Cominciamo dalle agevolazioni fiscali, che si concentrano quasi interamente sui redditi minori, al punto da creare una differenza sostanziale tra le aliquote previste dalla legislazione fiscale e quelle effettivamente applicate. Il risultato è un perfetto dualismo. Esiste una curva “teorica” da sbandierare per invocare un’ulteriore progressività. Ed una “reale”, da nascondere sotto montagne di norme e codicilli: 533 voci, 119 mila beneficiari, 62,33 miliardi di euro, secondo gli ultimi dati governativi.

Si spiega allora uno dei misteri indicati da de Bortoli. Il fatto, cioè, che “il 57 per cento dei contribuenti” versi solo “15 miliardi” di Irpef. Valori, per la verità, che a noi sembrano troppo bassi, essendo gli incassi complessivi dell’Ipef (dati 2019) pari ad oltre 191 miliardi. Dai nostri conteggi, riferiti tuttavia alle dichiarazioni 2018, risulta una distribuzione del carico fiscale diversa nei numeri, ma ugualmente squilibrata.

Il 62 per cento dei contribuenti effettivamente paganti, che sono stati pari al 69,5 per cento della platea complessiva, quell’anno, ha sostenuto sulle proprie spalle il 23,6 per cento del gettito complessivo. Mentre i contribuenti maggiori, che godono dei redditi più alti, pari al 2 per cento del totale, più o meno la stessa percentuale. Risultata pari al 22,1 per cento. Il 2 per cento dei nostri calcoli è un po’ più dell’1,13 indicato da De Bortoli. Ma è facile convenire che non sia questo piccolo scarto ad alterare il senso di un ragionamento più complessivo. Ed occultare evidenti disparità.

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