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Verità e bugie sul debito di Roma (e sulla querelle M5S-Lega)

Il commento di Gianfranco Polillo sulla questione del debito di Roma

La ricetta della felicità per i 5stelle è stata scritta in uno degli ultimi blog del sito del Movimento. Titolo promettente: “Tutta la verità sul #SalvaRoma: pagano le banche e ci guadagnano i cittadini”. Nell’immaginario del Movimento, le banche sono i cattivi. Sono coloro che speculano sulla miseria altrui. Vecchi capitalisti con tanto di tuba ed abito nero. Gli stessi che, in un vecchio manifesto dell’avanguardia russa, erano spazzati via dalla scopa di Lenin, all’indomani della Rivoluzione d’ottobre. Ma allora il mondo si prestava a divisioni manichee: i borghesi da un lato, le masse proletarie dall’altro. E le banche come templi: in cui si officiava il rito del dio danaro.

Può essere, ancora oggi, questo lo schema di riferimento? “Quello che vogliamo fare noi – dicono i bolscevichi del Terzo millennio – è molto semplice: rinegoziare gli interessi del debito con le banche, in modo da risparmiare circa 2,5 miliardi di euro”. Che sono una bella cifra, considerando che rappresentano oltre il 20 per cento del valore capitale del debito ancora esistente. Ma se il Comune risparmia 2,5 miliardi, chi paga? Perché c’è naturalmente qualcuno che si deve accollare il relativo onere. Altrimenti i 5 stelle avrebbero trovato l’antica pietra filosofale. Quella che doveva trasformare il piombo in oro e risolvere, attraverso questa via, i destini di un’umanità sofferente. Dire che pagano le banche non ha senso. Possono anticipare (e non è detto) le somme richieste, ma poi si rifanno su qualcuno. Chiedono più interessi sui mutui delle famiglie ed i finanziamenti alle imprese per bilanciare i maggiori costi. Oppure offrono una minore remunerazione ai depositanti. Alla fine di questa partita di giro, il cerino rimane sempre in mano al singolo cittadino. L’unica differenza è che a pagare non saranno più i romani, ma una moltitudine indifferenziata.

Esempio supremo di avidità da parte degli istituti di credito? Mica tanto. Quando il Comune di Roma ha contratto quei debiti con le banche, queste ultime si sono dovute procurate i fondi sul mercato. È indubbiamente vero che i tassi attivi (a carico del debitore), allora erano elevati. Ma lo era anche il costo della provvista. Ossia il tasso passivo, che la banca pagava ai depositanti o sui mercati internazionali. Modificare all’improvviso solo uno dei termini dell’equazione non comporta nessun risparmio potenziale, ma, come detto prima, solo una traslazione dell’onere. Che dalla banca finisce per impattare sui “soliti ignoti” del momento. Nemmeno fosse il programma di Amadeus.

Naturalmente una rinegoziazione è sempre possibile. E’ stata realizzata nel corso di questi ultimi anni per molti mutui a carico delle famiglie. Ma era una scelta perseguita dagli stessi Istituti di credito, nella presunzione che l’operazione fosse comunque vantaggiosa, dati gli andamenti del mercato. In presenza di tassi d’interesse in forte riduzione era utile anticiparne la tendenza e negoziare con il cliente un tasso in grado di garantire un maggior rendimento prospettico. Prospettiva che, oggi, è decisamente cambiata. La tendenza futura non è infatti quella di un’ulteriore riduzione dei tassi d’interesse, bensì del loro graduale aumento.

I 5 stelle ignorano del tutto queste dinamiche. “La misura non è affatto ‘Salva Roma’ – insistono sul blog – Casomai potrebbe essere chiamata ‘Taglia Banche’ perché taglia gli interessi bancari sui mutui per il debito pregresso. 2,5 miliardi di euro attualmente pagati da tutti gli italiani. Se c’è qualcuno che ci rimette sono solo le banche. Chi ci guadagna sono invece tutti i contribuenti italiani.” Ed è questa incomprensione di fondo che ha determinato il contrasto più violento con la Lega di Matteo Salvini, al quale non è stato difficile decifrare il dato esclusivamente propagandistico di quella proposta.

Se fosse così facile trovare le risorse, sottraendole dal caveau delle banche, l’Italia avrebbe risolto buona parte dei propri problemi. Nessun aumento prospettivo dell’IVA, tanto meno alcuna patrimoniale. Per ridurre il debito pubblico basterebbe, appunto, tartassare le banche. Oppure vendere l’oro della Banca d’Italia. E tutti vivrebbero felici e contenti. Ma poiché così non è, ecco allora la giusta impuntatura del Capo della Lega. Se c’è qualcuno che deve pagare, come in effetti sarà, perché premiare solo una città? La cui Amministrazione, per altro, non brilla certo per efficienza. Limite che non si riscontra solo nella raccolta dei rifiuti, nella manutenzione delle strade o nel trasporto pubblico. Ma in un’incuria più generale che riguarda il complesso delle entrate. Con la riscossione abbandonata a sé stessa, se la ricerca di maggiori introiti richiede un supplemento di attività gestionale. Come nel caso dei vecchi condoni, che giacciono in magazzini posti addirittura fuori dalla Regione Lazio. Oppure degli immobili affittati per pochi centinaia di euro non solo a qualche baciato dalla fortuna, ma ad imprese commerciali in posti più che suggestivi. Nel campo delle stesse contravvenzioni al codice della strada, Roma vanta un duplice primato: ne infligge in numero cospicuo, ma, alla fine, la percentuale degli incassi è pari alla metà di quelli milanesi. Ergo? Si estenda il beneficio – propone Salvini – se non proprio a tutti i comuni, almeno alle altre città metropolitane.

Fin qui la querelle tutta politica. Poi il duro scontro in seno al Consiglio dei ministri, ed infine il compromesso a metà, di cui non sono ancora chiari i contenuti. Che, comunque, conteranno poco. L’importante era mettere nel decreto una “norma rampino”. Vale a dire qualcosa a cui attaccarsi in sede di emendamenti, per sfuggire alla tagliola dell’eventuale “estraneità di materia”, che avrebbe impedito qualsiasi ulteriore intervento. Il gancio, a quanto sembra, è stato cementato. Si tratterà ora di vedere cosa succederà nella successiva discussione parlamentare e quali saranno i rapporti di forza che si determineranno. Con le stesse opposizioni decise a giocare la loro partita, seppur in una confusione sempre più generale.

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