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Investimento Cina

Via della Seta, ecco come Grecia e Ungheria si sono cinesizzate

Ripetere lo stesso schema di Grecia e Ungheria con l’Italia, dati i diversi rapporti di forza all’interno dell’Eurozona e le implicazioni più generali sul terreno della sicurezza, è molto più pericoloso. Il commento di Gianfranco Polillo

 

La pressione diplomatica non poteva essere più esplicita e, per alcuni versi, dirompente. Quel “matrimonio non s’ha da fare”: fa sapere Garrett Marquis, consigliere del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Che l’Italia, non firmi la “Belt and Road Initiative” in occasione della prossima visita, a Genova, del Presidente cinese Xi Jinping, venerdì 22 marzo. Quell’accordo, lungo la vecchia “via della seta”, che avrebbe dovuto segnare un ulteriore grande successo del “patto economico 16 + 1”: originariamente limitato ai soli Paesi dell’Europa centrale ed orientare. Ma che dopo l’eventuale firma italiana, da parte di Giuseppe Conte, ne vedrebbe l’estensione alla terza economia del Continente che, insieme a Francia e Germania, ne costituiscono il baricentro.

L’accordo di cooperazione con la Cina era stato siglato nel 2012 tra i soli Paesi dell’Europa centrale ed orientale. A farne parte erano soprattutto Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Romania e Grecia, dove si é concentrato circa l’80 per cento degli scambi. Con una crescita parallela degli investimenti che, nel successivo quinquennio, hanno raggiunto i 2 miliardi di dollari (dati 2014). Meno importante la presenza degli altri Stati, come la Croazia e la Slovenia, che fanno, tuttavia, da corona ad un sistema di alleanze che non ha solo una valenza economica e finanziaria, ma strettamente politica.

Lo si è visto chiaramente nel comportamento della Grecia e dell’Ungheria. Il porto del Pireo é posseduto, per 67 per cento da Cosco Shipping, la grande società cinese, che é anche la principale azionista della società che gestisce il porto di Shangai. Dal gemellaggio tra questi due terminali, si è sviluppato uno dei più potenti vettori commerciali tra la Cina e l’intera Europa, come grande mercato di sbocco della produzione cinese. Molte le critiche che hanno accompagnato la gestione del principale porto della Grecia, dove sembrano prevalere pratiche discriminatorie contro battelli e navi che non battono bandiera cinese.

Sia la Grecia, che l’Ungheria, dove il rapporto con la Cina è altrettanto forte, sono state costrette a prendere posizione a favore del proprio partner commerciale, incrinando lo spirito di solidarietà europea. La Grecia si è opposta ad una condanna europea delle violazioni dei diritti umani nel celeste impero. Impedendo ch’essa potesse essere pronunciata. L‘Ungheria, a sua volta, ha fatto altrettanto a proposito di una denuncia UE sulle torture inflitte agli avvocati detenuti nelle carceri cinesi. Poi, insieme, hanno impedito di inserire qualsiasi riferimento, nei confronti di Pechino, sul pronunciamento della Corte dell’Aja in merito al contenzioso riguardante il Mar della Cina meridionale.

Episodi che dimostrano come, nel caso dei rapporti con la Cina, il confine tra la semplice economia e la politica, sia estremamente incerto e labile. Cosa che non dovrebbe sorprendere, considerate le caratteristiche del regime. Non si dimentichi che molti degli accordi, che hanno interessato i rapporti tra l’Autorità portuale del Pireo e la Cosco Shipping sono stati siglati alla presenza di Han Zheng, membro dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese e segretario del comitato municipale di Shanghai. Se tanto da tanto: perché stupirsi delle perplessità americane, di fronte ad un’iniziativa, come quella paventata dell’accordo con l’Italia, che dovrebbe far compiere alla strategia cinese un grande salto di qualità?

Prima con discrezione, quindi in modo sempre più incisivo e determinato, gli Americani sono intervenuti sul Governo italiano, al fine di dissuaderlo. I rapporti con la Cina vanno anche coltivati, ma in un quadro di certezze, che eviti che l’Italia diventi il moderno “cavallo di Troia” per le mire espansive dell’ingombrante incumbent. Ragioni comprensibili. La cui declinazione richiede, tuttavia, uno sforzo unitario da parte dell’Europa stessa. Se sul terreno internazionale, essa si presenta divisa e litigiosa, al suo interno, è facile per qualsiasi “potenza estranea” – sia essa la Cina, ma anche la Russia o gli stessi Stati Uniti – inserirsi in quel teatro per scompaginarlo ulteriormente.

Da questo punto di vista il caso della Grecia dovrebbe insegnare qualcosa. Le autocritiche postume da parte delle principali Autorità europee, sull’accanimento terapeutico cui Atene è stata sottoposta, sono forse servite a salvar loro la coscienza. Ma non hanno impedito la frittata. Alla fine la Cina ha “comprato” il porto del Pireo e con esso si è assicurato una sorta di salvacondotto per le proprie politiche di grande potenza. Ripetere lo stesso schema con l’Italia, dati i diversi rapporti di forza all’interno dell’Eurozona e le implicazioni più generali sul terreno della sicurezza (Nato, industria degli armamenti, cyber tecnologia come quella del 5G con Huawei), è molto più pericoloso.

É, quindi, giusto resistere a quelle lusinghe, ma, al tempo stesso, i possibili alleati – dagli Stati Uniti al resto dei Paesi europei – non facciano orecchi da mercante. Quando si tratta di aiutare chi è rimasto indietro. Considerato che, quasi, mai le colpe sono da una sola parte.

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