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Ucraina: i disastri di Putin, le vittorie di Biden sul gas

Washington premeva affinché le forniture di gas russo fossero sostituite dal Gnl Usa. Per Biden una vittoria non solo politica, ma commerciale. Grazie ai maggiori introiti potrà ridurre lo squilibrio che da anni segna la bilancia dei pagamenti del suo Paese, rispetto all'Ue. Era stato il sogno di Donald Trump. L'analisi di Polillo

 

Un autentico disastro. Ci vorrà tempo per capire gli effetti perversi di questa guerra. Quella su donne, vecchi e bambini si sono già viste. Si sono viste in quegli sguardi disperati, in quegli addii senza parole sulla frontiera di un Paese straniero, benché amico. Nella distruzione dei nuclei familiari: chi poteva, seppure malapena reggere un fucile, tornare nell’inferno di Mariupol; gli altri avviarsi verso un incerto destino. Purtroppo per molti di loro non ci sarà soddisfazione, quando il colpevole di questa nuova “inutile strage” pagherà per i crimini commessi.

Perché alla fine Vladimir Putin pagherà. Quem Iuppiter vult perdere dementat prius: (Giove toglie prima il senno di coloro che vuole perdere) e Putin il senno l’ha perso da tempo. L’ha perso nel momento in cui ha deciso una guerra che non rispondeva a null’altro se non alle pulsioni di un hard power, che riteneva inattaccabile. Il potere non di un tiranno, ma di un moderno satrapo che utilizza la propria gente come carne da cannone in un’azione bellica senza costrutto e strategia.

Non si era dato nemmeno la pena di studiare il terreno. Cogliere, se esistevano, i punti di forza e di debolezza del nemico da conquistare. Pensava che bastasse lo schieramento imponente di mezzi militari per terrorizzare un popolo, guidato da un “commediante” pronto a cedere al timore reverenziale del KGB. E poi gli occhi di quei soldatini mandati al macello. Altro che guerrieri della grande armata russa. Ragazzi di leva traditi dai loro stessi ufficiali. Presi dalle località più lontane della grande steppa, per sfuggire al pericolo di una possibile entente con il nemico. Schierati come birilli in una finta esercitazione, per essere falcidiati da una vera guerra. Rivoltante cinismo, che tuttavia non è servito perché l’occupazione, invece di andare avanti, si è impantanata.

Ma Putin non aveva nemmeno colto il malessere che serpeggiava, fin dall’inizio, nelle alte sfere militari. Quella scena imbarazzante con il capo dei servizi di intelligence, Sergei Naryshkin, che oggi, alla luce delle difficoltà incontrate, con il suo apparente imbarazzo, assume un significato profondamente diverso. Non era l’atteggiamento di chi non capiva, ma di chi cercava di mettere sull’avviso, senza incorrere nelle ira del tiranno. E poi il ministro della Difesa Sergei Shoigu, che scompare per 13 giorni. Per poi riapparire (un infarto?) con il volto debilitato.

Sono elementi che lasciano pensare. Mettono in luce un misto di dilettantismo ed avventurismo, che non ha giustificazione alcuna. Putin voleva piegare la NATO e l’Occidente ed invece ha reso entrambi più uniti e coesi. Prima dell’aggressione aveva creato delle quinte colonne, all’interno dei singoli Paesi europei, che la guerra ha scompaginato. È anche riuscito in un’impresa impossibile: ridimensionare il ruolo della Germania, costretta dagli avvenimenti ad assumere un atteggiamento più collaborativo, dando ragione a Washington che, da tempo, premeva affinché le forniture di gas russo fossero sostituite dal GNL: il gas naturale liquefatto da loro prodotto.

Per Biden una vittoria non solo politica, ma commerciale. Venderà di più in Europa. Grazie ai maggiori introiti, derivanti dalle forniture di gas, potrà ridurre lo squilibrio che da anni segna la bilancia dei pagamenti del suo Paese, rispetto al Vecchio continente. Era stato il sogno di Donald Trump, che aveva cercato di risolvere con la prepotenza – i dazi sulle importazioni europee – che gli era propria. Biden, invece, lo farà con eleganza nel nome di una solidarietà che le strategie del Cremlino hanno rafforzato. Un capolavoro, rispetto alla rozzezza di oligarchi incapaci di difendere i propri reali interessi dalla smania di grandezza del proprio leader.

Per l’economia russa, nel suo complesso, uno smacco più che pesante. Il venir meno del mercato di smercio più grande del mondo. Le relative forniture di gas e di petrolio potranno essere dirottate verso la Cina. Ma si tratterebbe sempre di una soluzione di ripiego, stando ai rapporti di forza che intercorrono tra questa realtà, seppure in rapida espansione, ed il resto del “mondo libero”. Un po’ meno di un terzo: considerato il peso specifico di ciascuna economia sul Pil mondiale, secondo i dati del Fondo monetario.

Per capire la follia del gesto, che sta cambiando la geopolitica del mondo, basta guardare agli interessi materiali in gioco. La Russia, insieme agli Stati Uniti ed all’Arabia Saudita, sono i principali produttori di petrolio. Con una differenza, tuttavia, il primato russo nel gas è incontrovertibile. Le sue riserve naturali sono infatti pari al 63,9 per cento del totale, stando almeno ai dati diffusi dall’Unione petrolifera. Nel 2018 la produzione di gas russo é stata pari al 22 per cento del totale mondiale. Di cui circa il 30 per cento esportato.

Più contenute invece le riserve di greggio, pari al 6,2 per cento del totale. Intensa invece la capacità di trading. Sempre nel 2018 la sua produzione giornaliera è stata pari ad 11,4 milioni di barili al giorno, il 20 per cento della produzione non OPEC. Secondo Paese esportatore, dopo l’Arabia Saudita, con 5,2 milioni di barili al giorno, pari al 45,6 per cento della produzione giornaliera. Ma quel che più conta, in questa complessa geografia, è il costo di estrazione. In Russia tra i più bassi: pari, secondo il FMI, a 3,4 dollari al barile, appena di poco superiore a quello dell’Arabia Saudita, pari, invece, a 2,8 dollari. Contro un prezzo che sfiora i 120 dollari al barile. Riserve che rimarranno, almeno in parte, congelate.

La disponibilità di quest’immensa ricchezza, a partire dal 2000 – epoca in cui è iniziato lo sfruttamento degli enormi giacimenti siberiani – avrebbe dovuto comportare uno sviluppo del Paese senza precedenti. Se le relative risorse non fossero state dissipate a vantaggio di una ristretta casta di oligarchi, dai consumi più cafoni che opulenti. Invece il tasso di crescita dell’economia russa a partire dal 2007 è stato più che modesto. Addirittura inferiore a quello dell’Arabia Saudita, la cui popolazione, tuttavia, è meno di quarto di quella russa. Elementi che dovrebbero essere oggetto di attenta riflessione da parte di coloro che, anche in Italia, difendono il regime, confondendo il giusto anelito per la pace con una resa senza condizioni.

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