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Energia

Tutti i paletti di Bruxelles sul Recovery Plan: che cosa farà Draghi?

Come si muoverà Draghi sul Recovery Plan? L'approfondimento di Giuseppe Liturri

 

Settimana densa di eventi significativi, quella appena terminata. È cominciata con il presidente della Camera Roberto Fico nel ruolo di “esploratore” ed è terminata con il professor Mario Draghi, nel ruolo di presidente incaricato (in attesa che sciolga la riserva) di formare un nuovo governo “di alto profilo”.

Lunedì sera, nell’immediatezza della convocazione di Draghi da parte del Presidente Sergio Mattarella, avevamo a caldo sviluppato delle considerazioni relative all’autorevolezza ed anche al potere negoziale di Draghi sui diversi tavoli aperti in Europa, dal Recovery Plan alla riforma del Patto di Stabilità. Senza disconoscere la delusione per non essere andati al voto e, con innumerevoli perplessità sulla effettiva posizione di Draghi e della maggioranza che potrebbe sostenerlo, ci eravamo spinti ad ipotizzare una maggior efficacia relativa della sua azione a difesa degli interessi italiani, rispetto alla posizione del tutto prona e succube tenuta da Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri.

Il giubilo, invero scomposto, a cui abbiamo assistito su tutti i media in questi ultimi giorni è segnaletico dell’insoddisfazione, che covava sotto la cenere, verso il Recovery Plan redatto dal governo uscente e, più in generale, verso i risultati ottenuti sui numerosi dossier aperti. Era solo questione di tempo e – una volta che Matteo Renzi ha acquisito nel corso di colloqui riservati la disponibilità personale di Draghi all’incarico (da ultimo anche Bloomberg ha rilanciato queste indiscrezioni) – il senatore toscano ha abbandonato il tavolo dell’esplorazione di Fico e servito sul tavolo di Mattarella la soluzione preconfezionata.

Ora per Draghi viene la parte difficile. Poiché siamo ancora in una repubblica parlamentare, il voto di fiducia delle Camere è decisivo. E va conquistato su ogni singolo provvedimento.

I punti nodali su cui il nominando esecutivo Draghi dovrà dimostrare la “sua nobilitate” sono i seguenti:

  1. Ottenere dalla Commissione l’approvazione del Recovery Plan con investimenti per circa 209 miliardi fino al 2024.
  2. Rinegoziazione del Patto di Stabilità che in termini grossolani viene definito sospeso, ma non è affatto così. E’ stata solo attivata una clausola di salvaguardia prevista dalle norme, ma tutto l’impianto normativo continua a fare il suo corso, come dimostrato dal rapporto redatto dalla Commissione lo scorso 20 maggio.
  3. Approvazione da parte del Parlamento della Legge di ratifica della riforma del Trattato del Mes. La firma a livello di ambasciatori plenipotenziari è avvenuta il 27 gennaio, ora tocca a tutti i 27 Parlamenti nazionali.

Sul primo punto, la Commissione ha fissato dei paletti molto stringenti. Di recente, ha voluto ribadire quali siano i criteri fondamentali di valutazione dei piani nazionali e, di conseguenza, quali siano le informazioni che essi devono necessariamente contenere. Tutto ciò allo scopo di emettere una inappellabile pagella: per ciascuna delle 11 “materie” oggetto di valutazione ci sarà un voto (A, B, C) e per ben quattro di esse solo il giudizio “A” consentirà l’ammissibilità dell’intero piano. Inoltre, in nessuna materia è ammesso il voto C, a pena di bocciatura. Stesso esito negativo, in caso di giudizi B maggiori di A. Pertinenza, efficacia, efficienza e coerenza: questi sono i capisaldi che identificano i criteri di valutazione.

Tra le quattro materie in cui bisogna primeggiare c’è la capacità del piano di affrontare e risolvere – “tutte o una parte significativa” – le criticità poste dalle Raccomandazioni Paese 2020 e 2019 (quelle del taglio alle pensioni e dell’aumento delle tasse sugli immobili, per intenderci). Ma non basta. Il piano dovrà anche spiegare come intende affrontare problemi come la composizione della spesa pubblica e la sostenibilità di lungo termine del debito pubblico. Bisognerà anche fare i conti con le raccomandazioni derivanti dall’applicazione del famigerato Regolamento 1176/2011 (uno dei sei del six pack). Si tratta infatti del regolamento che disciplina la procedura per gli squilibri eccessivi. Esso prevede un meccanismo di allerta a cui può seguire un esame approfondito che può sfociare in raccomandazioni preventive e dare quindi luogo ad una procedura per squilibri eccessivi. Ciò significa obbligare lo Stato membro ad adottare un piano di misure correttive da sottoporre alla valutazione ed al monitoraggio del Consiglio, con annesse missioni di sorveglianza. In una parola: il sogno proibito per gli euroburocrati di Bruxelles che per anni hanno tentato di infilare l’Italia in quel tunnel. Ora tale sogno è su un piatto d’argento come condizione essenziale per l’approvazione del Recovery Plan. Le linee guida specificano che attualmente ci sono 12 Stati membri (tra cui l’Italia) sotto esame approfondito e proprio essi devono accuratamente spiegare come il piano risolverà i problemi ivi evidenziati. Naturalmente, per l’Italia parliamo del rapporto debito/PIL.

Da notare che non esistono mezze misure. Chi è bocciato perde tutti i sussidi ed i finanziamenti.

Se qualcuno si illudesse che, superato questo percorso di guerra, il nostro Paese possa dedicarsi all’esecuzione degli investimenti – di cui, ribadiamolo, abbiamo disperatamente bisogno, ma a condizioni non draconiane – si sbaglia di grosso.

Infatti, le linee guida prevedono per ciascuna componente di investimento o di riforma bisogna fissare traguardi di tipo qualitativo ed obiettivi quantitativi (impatto sul PIL, sull’occupazione e sul bilancio pubblico). Quando, due volte l’anno sarà possibile richiedere i pagamenti, la Commissione farà partire un altro giro di giostra simile a quello fin qui illustrato. Nuovo giro, nuove pagelle. Essa dovrà infatti fare una valutazione preventiva e chiedere poi un parere al Comitato Economico Finanziario, da rendersi entro 4 settimane, sull’effettivo raggiungimento di traguardi ed obiettivi. Se non ci fosse unanimità, la questione verrebbe rimessa al successivo Consiglio Europeo ed i pagamenti sarebbero sospesi, fino a quando tale organo non abbia discusso “in modo esaustivo” il problema. Tutto ciò non dovrebbe durare più di 3 mesi dal momento della richiesta del parere al Comitato. Peccato che si tratti di una durata “in linea di massima”, nonostante Gualtieri abbia sostenuto pubblicamente il contrario. Ma carta canta.

Il piano deve infine garantire un’adeguata capacità di implementazione e monitoraggio con tanto di cronoprogramma per ciascuna componente. E, a tal fine, richiede che un’”apposita struttura” abbia proprio questi specifici compiti, in particolare quello del controllo del raggiungimento dei traguardi e degli obiettivi.

Il Presidente “in pectore” da esperto economista non può non sapere che l’applicazione di tutto quanto sopra dettagliatamente descritto è foriero di danni per il nostro Paese.

In un momento in cui c’è bisogni di stimoli alla domanda (consumi ed investimenti, soprattutto pubblici), da Bruxelles ci vengono propinate le solite ricette di riforme dal lato dell’offerta. Per di più esse sono totalmente prive di analisi di impatto macroeconomico. L’efficacia è già accertata come atto di fede, come qui egregiamente illustrato dal professor Sergio Cesaratto. L’Italia deve farsi dettare le priorità di spesa dalla UE? il 37% di spese per la transizione ambientale (qualsiasi cosa voglia dire) ed il 20% per la transizione digitale, sono le priorità di altri Paesi.

Il tema della riforma del Patto di Stabilità è totalmente incistato nel Recovery Plan. Se ci viene richiesto di conseguire avanzi primari di bilancio pubblico a partire dal 2023, con i conseguenti effetti recessivi, quale potrà mai essere l’effetto netto per la crescita e lo sviluppo del nostro Paese? Saremo costretti a chiudere per mancanza di personale gli ospedali che abbiamo costruito con il Recovery Plan solo due anni prima?

L’enorme differenza tra Draghi ed il duo Conte-Gualtieri è che il primo queste cose le sa, i secondi no. Oltre ad essere del tutto privi di autorevolezza e carisma sui tavoli negoziali europei.

Riuscirà Draghi a cambiare le regole del Recovery Plan e quelle del Patto di Stabilità in modo più favorevole al nostro Paese?

I precedenti non depongono a favore ma, se fallisse, le prossime elezioni rischierebbero di essere un referendum sulla UE. Ed anche queste cose Draghi (e chi lo ha messo là) le sa benissimo e forse è sufficientemente accorto e saggio da non voler correre questo rischio.

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