“Le fusioni tra banche? Non si improvvisano. Servono analisi serie perché la storia ci dimostra che non tutte le aggregazioni sono state di successo”. Lo ha detto oggi, in un’intervista al Sole 24 ore, l’amministratore delegato di Ubi Banca Victor Massiah, al lavoro sul piano industriale triennale che la banca conta di presentare nel primo trimestre del 2020; mentre i nuovi grandi azionisti di Ubi – specie fondazioni e imprenditori – soffiano sul collo del vertice (qui fatti e indiscrezioni di Start).
Da mesi in Italia si parla di un riassetto che potrebbe coinvolgere, oltre a Ubi Banca, anche Banco Bpm, Banca Popolare Emilia Romagna e Banca Mps. Scenari fattibili, spinte della Vigilanza o bluff mediatici?
Massiah dice che non è tutto semplice. “A livello di sistema – ha spiegato il capo azienda di Ubi Banca – esiste indubbiamente una frammentazione che va superata. Ma servono analisi serie. In particolare con una approfondita valutazione di almeno due elementi di cui si parla poco: i nuovi principi contabili internazionali impongono di spesare interamente all’inizio i costi di fusione e l’impatto dell’armonizzazione dei modelli interni sugli indici di capitalizzazione”.
In sostanza Massiah ha frenato su un’eventuale fusione. Il capo azienda di Ubi Banca, infatti, ha spiegato in sostanza al Sole 24 Ore che, prima di effettuare operazioni di aggregazioni, servono approfondimenti su due elementi: i nuovi principi contabili internazionali, che impongono di spesare immediatamente i costi di ristrutturazione derivanti dalla fusione che riguardano soprattutto gli esuberi di personale, e l’impatto dell’armonizzazione dei modelli interni di rating sui coefficienti di capitale.
“Riteniamo che Massiah si riferisca alle tabelle 45 e 46 del nostro report (si veda la foto, ndr), che mostrano che Ubi ha risk weight più elevati nei portafogli retail e corporate, pur mostrando il tasso di default cumulato più basso degli ultimi 10 anni, e al fatto che i modelli più prudenti potrebbero essere trasferiti all’altra banca in caso di fusione”, commentano gli analisti di Mediobanca Securities.
Nonostante le recenti incoraggianti dichiarazioni del regolatore, che suggeriscono l’evitabilità di aumenti di capitale in caso di merger e la necessità di un consolidamento del sistema bancario, gli analisti di Mediobanca preferiscono non puntare sull’M&A poiché lo vedono prematuro in questa fase, “dato che l’attenzione è ancora concentrata su de-risking e sull’aumento dell’adeguatezza patrimoniale in vista di venti contrari a livello normativo”, si legge su Mf.
Concordano gli esperti d Fidentiis (hold e target price tra 3,5 e 3,7 euro): “riteniamo che ci siano molte questioni contro l’M&A in Italia e, oltre a quanto dichiarato dal ceo di Ubi, aggiungiamo il valore attuale delle banche, estremamente basso, e con grandi differenze e i problemi di governance”.
E’ dunque logico, per gli analisti, che banche come Ubi e Banco Bpm si focalizzino sui piani senza aggregazioni, cercando di mostrare una redditività normalizzata e un coefficiente di distribuzione più elevato, grazie a un ratio lordo di npe che si è fortemente ridotto nel corso degli ultimi due anni, che possano portare a una rivalutazione del titolo prima di affrontare qualsiasi ipotesi di M&A.
Alla domanda se i Big Tech fanno paura, con Google che si prepara a lanciare conti correnti bancari,”se operassero senza regole, sì certo farebbero paura”, ha risposto Massiah, in passato vicino a Bazoli (che ora conta sempre meno nei nuovi equilibri di Ubi): “Abbiamo però visto che Facebook , con il suo progetto Libra, ha incontrato forti resistenze regolamentari. Credo che sia necessaio che tutti i player siano sottoposti alle stesse regole. E le regole vadano adeguate al mondo che cambia. Pensiamo alla direttiva Psd2, appena entrata in vigore, che non garantisce la reciprocità tra operatori nell’utilizzo dei dati dei clienti”.