Non sarà tutto oro colato, ma certo che le ultime previsioni dell’Ocse sullo stato di (poca) salute dell’economia internazionale inducono ad una riflessione. Ha fatto scandalo, ad esempio, il suggerimento, amplificato dalla stampa specializzata, di una diversa politica fiscale, per alcuni Paesi dell’Eurozona. Secondo l’ultimo interim report, “Francia, Italia e Spagna, hanno uno spazio fiscale limitato, a causa di un deficit di bilancio prossimo o superiore al 3 per cento ed un rapporto debito – Pil che tende a crescere. In questi Paesi, la maggiore spesa per gli investimenti pubblici è considerata pienamente compensata da un aumento delle imposte dirette, tali da determinare un impatto neutrale sul budget”. Ed è stata subito polemica.
L’Ocse propone di finanziare i necessari maggiori investimenti pubblici, aumentando l’Irpef: questo uno dei tanti commenti. Per la verità non si è trattato di una proposta, ma della semplice risultante di una simulazione eseguita con un proprio modello econometrico. Ma siccome la lingua batte dove il dente duole, le reazioni non si sono fatte attendere. Naturalmente per l’Italia una simile ricetta è improponibile, specie nel momento in cui ci si accapiglia sulla sterilizzazione degli aumenti dell’Iva. L’eventuale esortazione va semmai recepita, sottolineando, ancora un volta, la necessità di una grande riforma fiscali, che superi la vecchia impostazione fondista, che è tipica dell’attuale sistema impositivo.
Il fatto è che l’Ocse mantiene, nelle sue analisi, un’impostazione globalist. Il mondo come scenario ed un sistema di relazioni internazionali definitivamente codificate. Un’evidente astrazione, visto il peso crescente delle pulsioni protezioniste, volte proprio a modificare rapporti consolidati da una lunga tradizione storica. Non si tratta di essere sovranisti, ma di rovesciare l’ottica dell’analisi. Partire dalla base della piramide, costituita da Paesi che hanno storie, culture ed esigenze diverse. Per poi ritrovare una sintesi a livello più alto.
Si scoprirebbero allora fenomeni che l’Ocse tende a trascurare, come ad esempio la diversa dinamica delle rispettive bilance commerciali. Grandi aree, come l’Eurozona, in surplus. Ed altre – gli Stati Uniti – in deficit. Dato oggettivo che fa da esca alle pulsioni protezionistiche. Se poi l’analisi si disaggrega a livello di rapporti tra Stati, la fotografia diventa ancora più nitida e spiega fenomeni politici – il contrasto tra la Cina di Xi Jinping e l’America di Donald Trump – altrimenti incomprensibili.
Se questi sono i limiti dell’Istituto, non si può tuttavia trascurare l’apporto positivo, in termini di conoscenza, che quelle stesse relazioni possono fornire. Nei vari allegati grafici-statistici, la cosa che colpisce di più è la posizione dell’Italia. La sua lunga agonia produttiva. La crescita del suo reddito pro capite occupa stabilmente dal 1995 in poi uno degli ultimi posti in una classifica composta da ben 20 Stati. Che comprendono le principali economie occidentali, ma anche la Cina, l’India, la Turchia, la Korea, l’Indonesia, il Messico, l’Australia, l’Arabia saudita, il Sud Africa, il Brasile e l’Argentina.
Nel periodo 1995–2007 la situazione destava qualche preoccupazione, ma nessuno allarme. Un ritmo di crescita modesto, leggermente inferiore a quello dei suoi più prossimi concorrenti, ma comunque positivo. Dal 2010 al 2018, invece, il crollo. La media cambia segno e diventa negativa, facendo regredire l’Italia in un fossa che ha come confini estremi il Brasile e l’Argentina. Gli unici Paesi in grado di contenderle questo poco invidiabile primato.
Un retaggio del passato? Purtroppo non è così. Le previsioni dell’Ocse non sono confortanti. Per il 2019 solo Turchia ed Argentina faranno peggio. Mentre, nel 2020, rimarrà solo l’Argentina. Si può fare qualcosa per invertire questo trend o ci si deve arrendere ad un triste destino? Questo dovrebbe essere il principale rovello di governanti “in tutt’altre faccende affaccendate”. Sempre che il loro “cervel” – come poetava Giuseppe Giusti – a “questa roba” non fosse ”morto e sotterrato“.