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Tunisia

Tutte le vere novità nel programma di Draghi

Il discorso del presidente del Consiglio, Mario Draghi, commentato da Gianfranco Polillo

 

Cinquemila seicento parole non sono poche per illustrare un programma di governo. Se poi sono lette senza alcuna concessione alla retorica, ma con la freddezza di chi innanzitutto vuol mettere ciascuno di noi di fronte alle proprie responsabilità, il risultato è sorprendente. Soprattutto coinvolgente: nel dirci che tutto non dipenderà solo dalle Istituzioni, ma da come, tutti insieme, sapremo rispondere alle grandi sfide che il futuro ci riserva. Quando riaccenderemo la luce – questo un punto forte del messaggio del

Presidente del consiglio – scorgeremo un mondo profondamente diverso da quello che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Con il quale doverci misurare.

Al momento dominano le macerie, indotte da una pandemia che ha lasciato ferite profonde. La prima parte dell’intervento di Mario Draghi è stata una descrizione puntuale di questo immane disastro. Che richiama alla mente il periodo più drammatico della storia italiana. Quell’immediato dopoguerra in cui tutto sembrava perduto e che, invece, fu l’inizio di una grande riscossa nazionale. L’avvio di quel “miracolo economico” prodotto dagli “investimenti e lavoro. Ma soprattutto grazie alla convinzione che il futuro delle generazioni successive sarebbe stato migliore per tutti”. Tema, quest’ultimo, che ricorrerà più volte nel suo discorso.

L’elenco è puntuale, a partire dai dati epidemiologici: 92.522 morti, 2.725.106 contagi, 2.074 ancora ricoverati nelle terapie intensive. E poi il prezzo durissimo pagato dagli operatori sanitari. Un fenomeno che, per la prima volta in oltre cento anni di storia, ha prodotto una riduzione della speranza di vita di 4/5 anni nelle zone più colpite e di 1,5/2 nelle medie nazionali. A dimostrazione di quanto violenta sia stata la tempesta sanitaria.

Quindi lo sguardo rivolto alle conseguenze sociali. A partire dal prezzo esorbitante pagato dai giovani e dalle donne, stretti nella morsa di una crescente disoccupazione, che ha accentuato le grandi fragilità italiane. Alle vecchie povertà, come si diceva una volta, se ne sono aggiunte di nuove. “Da un anno all’altro l’incidenza dei ‘nuovi poveri’ passa dal 31 al 45 per cento” mentre cresce il livello delle diseguaglianze. Il coefficiente Gini, che misura, appunto, quello scarto “nel primo semestre del 2020” sarebbe aumentato “di 4 punti percentuali, rispetto al 34,8% del 2019”.

Ma perché tanta cura nella descrizione del presente? Ma perché solo da questa consapevolezza iniziale, che non deve essere appannaggio esclusivo di pochi, può partire quella riscossa che è necessaria per voltare pagina. C’é, infatti, bisogno – dirà nelle sue conclusioni – di “un sostegno che non poggia su alchimie politiche ma sullo spirito di sacrificio con cui donne e uomini hanno affrontato l’ultimo anno, sul loro vibrante desiderio di rinascere, di tornare più forti e sull’entusiasmo dei giovani che vogliono un Paese capace di realizzare i loro sogni”.

Può sembrare sorprendente che un economista, che non è solo un banchiere, non si sia dilungato più di tanto sulle cose immediate da fare. Citando numeri e diagrammi. Mario Draghi ha preferito, invece, far leva sul sistema delle aspettative, che da sempre regola il metabolismo del sistema sociale. Se c’è voglia di fare, tutto diventa possibile. Se invece il sistema ripiega su se stesso, allora gli unici numeri che sono significativi, come del resto è avvenuto finora, sono quelli dell’inevitabile declino. Per arrestare il quale è necessario partire dall’emergenza, ma guardando ad un futuro che ha una proiezione di lungo periodo.

Nelle indicazioni programmatiche del Presidente del consiglio è difficile identificare le misure più immediate che il Governo prenderà. Più forte è invece la suggestione del metodo che si dovrà seguire. Quell’operato su piani diversi tra loro coordinati, avendo come stella polare i grandi interrogativi del momento: a partire dalla difesa del Pianeta che una modernità poco accorta rischia di distruggere rapidamente. Da qui il traguardo delle misure da prendere che non può essere circoscritto al brevissimo periodo, ma deve avere come orizzonte il 2050. Il che suona strano per un Governo che dovrebbe avere una speranza di vita, comunque, limitata. Ma non è questo l’obiettivo di Mario Draghi. Se si parte dalle premesse del suo intervento, allora il cambiamento che è necessario non può durare lo spazio di un mattino, ma investire anche i Governi che verranno.

Comunque nessuna fuga in avanti: le indicazioni che fornisce sulla logistica della vaccinazione, sulla lotta alla crescente disoccupazione, o sul sostegno alle attività economiche, in parte da garantire ed in altri casi da riconvertire, sono puntualissime. Come pure il suo accenno alla necessità delle grandi riforme da mettere in cantiere con il respiro che meritano. Non riformicchie, come quelle di cui si è, da tempo, parlato. Ma riforme vere che, come nel caso del fisco, richiedono tempi indispensabili, se si vogliono realizzare cambiamenti simili a quelli intervenuti in altri Paesi, come la Danimarca, o in Italia. Negli anni ‘70, Bruno Visentini e Cesare Cosciani realizzarono la riforma dell’Irpef, dopo un’intensa discussione sulle prospettive di crescita dell’apparato produttivo italiano.

Riforme organiche, quindi, è non quelle modifiche marginali che rispondono ad esigenze puramente identitarie o di diretta rappresentanza politica, non solo in campo fiscale, ma nel riordinare la pubblica amministrazione o quella giustizia su cui la Commissione europea ha più volte richiamato l’attenzione.

Queste, quindi, le cose che ci hanno più colpito. Ovviamente, molti, più per polemiche interne che per altro, sottolineeranno lo spirito europeista ed atlantico che ha caratterizzato tutto l’intervento di Mario Draghi. Cosa che, ai nostri occhi, era scontata. Tuttavia ci fa piacere riportare un passo del suo intervento, che troviamo significativo: “senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma fuori dall’Europa c’è meno Italia”. L’idea, in definitiva, che la difesa degli stessi interessi nazionali, non possa che essere assicurata da un ruolo più attivo. Che non sia semplice acquiescenza ai desiderata altrui, ma capacità di trovare quel giusto compromesso che, in prospettiva, rafforza il ruolo della stessa Europa.

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