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Tunisia

Tutte le magagne politiche, economiche e burocratiche della norma anti delocalizzazioni

Perché critico la bozza di decreto anti delocalizzazioni. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Giuliano Cazzola ha analizzato, con dovizia di particolari, tutte le contraddizioni della bozza di decreto anti delocalizzazione. Ed allora perché tornarvi? Solo per mettere in luce un connubio culturale – quello tra i 5 stelle e la sinistra del Pd – che si muove in un universo lontano mille anni luce dai principi che dovrebbero regolare i rapporti tra Stato e mercato. Se così fosse le conseguenze sarebbero inevitabili e la stessa bozza di decreto, ancora non perfezionata, risulterebbe pressoché inemendabile.

La contraddizione principale é già evidente nell’articolo uno: norma, per così dire, di carattere programmatico. Nella versione a nostra disposizione, si concede libertà di chiusura solo nel caso in cui si sia in presenza di “uno squilibrio patrimoniale o economico- finanziario che renda probabile la crisi o l’insolvenza”. In tutti gli altri casi scatterebbe una complessa procedura amministrativa rivolta a contenere, sul piano sociale, gli effetti della chiusura aziendale.

A prima vista la norma sembra essere caratterizzata da una precisione quasi chirurgica. Si parte infatti dalla crisi aziendale, ma solo a condizione ch’essa si manifesti in uno squilibrio. Cominciamo da questo aspetto. Quanto deve essere grande questo squilibrio per attivare la procedura? Il problema non é secondario. Poiché solo in presenza di questo requisito é consentito all’impresa, seppure tra mille condizionamenti, di chiudere lo stabilimento.

Nella norma si prevede che detto squilibrio possa essere sia di natura patrimoniale che economico-finanziario. Nel primo caso, si dovrà pertanto individuare una sorta di parametro. Una specie di Tier 1, già in vigore per le banche. Esso, com’é noto, misura il rapporto tra l’ammontare di una parte del patrimonio (capitale proprio, riserve ed utili non distribuiti) e le attività (soprattutto prestiti concessi) ponderate per il rischio. Nel caso delle imprese, a causa del loro più ampio raggio d’azione, mentre la prima grandezza può essere desunta dai libri contabili, la seconda é quanto mai incerta. Quale elemento del passivo dovrà essere considerato?

Si dirà: lo si vedrà caso per caso. Una non risposta che introduce un ulteriore elemento di incertezza. Basti pensare alle inevitabili discussioni: da un lato l’azienda che cercherà la legittimazione burocratica ad abbandonare il terreno di gioco. Dall’altra “la struttura per la crisi d’impresa” che farà di tutto per dimostrare che quella soglia critica non é stata raggiunta. Che poi questa nuova struttura del Mise rechi in sé le necessarie potenzialità, é cosa tutto da dimostrare. Fu istituita nel 2007, ma il relativo decreto, necessario per la sua istituzione, é stato varato solo il 9 marzo 2021. Non proprio una priorità per la politica industriale del paese.

Ancora più difficile é individuare la soglia dello squilibrio economico-finanziario. Mentre quello patrimoniale ha più una natura statica, misurabile in un rapporto tra le voci del conto patrimoniale, appunto. Quello economico-finanziario ha natura più incerta. Può manifestarsi con variazioni marginali del conto economico, in grado di anticipare quella crisi che, solo con il trascorrere del tempo, può avere un riflesso di natura patrimoniale. Chi deciderà quindi se quel giro di boa é stato raggiunto? L’azienda o la struttura ministeriale?

La cosa é ulteriormente complicata da due elementi. La crisi può essere determinata solo da un evento congiunturale legato al particolare settore in cui l’azienda opera. Di nuovo può manifestarsi un contrasto di posizioni tra l’azienda e la struttura ministeriale. La prima che invoca l’avvio di una dinamica irreversibile. La seconda che sdrammatizza. Ma quale crisi di settore, é solo una nuvola passeggera. Il tutto complicato dal fatto che la norma si limita ad indicare la sola probabilità di una crisi. Essendo scarse le capacità divinatorie, il gioco della discrezionalità diventa prevalente.

Come si può notare, la stessa fase istruttoria é minata da contraddizioni tali da poter alimentare un contenzioso infinito. Ma supponiamo che, alla fine, la struttura ministeriale dia il suo avallo alle decisioni dell’impresa. Si: siamo in presenza di uno squilibrio tale da giustificare la chiusura dello stabilimento. Da quel momento inizia per il relativo management, che voglia evitare il pagamento delle sanzioni, un vero e proprio percorso di guerra.

In base al combinato disposto degli articoli 2 e 3, devono presentare un piano per il riassorbimento degli esuberi. Come? La loro ricollocazione verso altre imprese, tutta la panoplia degli ammortizzatori sociali (dal reinserimento alla formazione). Cessione dei rami d’azienda per salvaguardare livelli, seppur ridotti di occupazione (richiesta più ragionevole). Riconversione del sito produttivo anche “per finalità socio culturali a favore del territorio interessato”. Compiti che, per la verità, hanno poco a che vedere con il core business dell’azienda. Trattandosi di competenza che attengono più ad un soggetto programmatore che non ad una struttura operativa, come quella aziendale.

Quale sarà la conseguenza di tutto ciò? Le aziende che vorranno investire in Italia dovranno attrezzarsi per far fronte all’eventualità di un cambiamento dell’indirizzo gestionale. Dovessero decidere, per le ragioni più varie, di dover abbandonare il loro vecchio insediamento, dovranno mettere nel conto l’onere aggiuntiamo legata alla dismissione. Un onere non solo economico, ma amministrativo a causa dei passaggi procedurali indicati nel decreto. Cosa che spiega, come giustamente ricordato da Giuliano Cazzola, perché in Francia un indirizzo, per molti versi simili, sia stato giustamente cassato dalla Corte Costituzionale.

Risultato finale: l’ulteriore contrazione degli investimenti da parte delle aziende di una certa consistenza, con più di 250 addetti. In omaggio di quel “piccolo é bello” (ma quando?) ancora tanto in voga tra i 5 stelle ed una parte del PD. Tutto ciò deve portare alla conclusione che non può esistere alcun argine alla cattiva gestione da parte di alcuni potentati, siano essi imprenditoriali o amministrativi? Non é questo il nostro pensiero. Gli abusi vanno comunque puniti, ma senza fare sfracelli. Vale comunque il vecchio principio, secondo il quale le norme (salvo quelle penali) regolano la fisiologia di sistema. Mentre la bozza del decreto é tutta concentrata su una patologia che, per fortuna, riguarda solo alcuni casi. Alcuni dei quali potevano essere ampliamento previsti e, quindi, neutralizzati fin dall’inizio.

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