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Norma anti-delocalizzazioni: fini, furbizie, tafazzismi e fake news

Che cosa prevede la bozza del decreto anti-delocalizzazioni. L'analisi di Giuliano Cazzola

 

Nei prossimi giorni il Consiglio dei Ministri dovrebbe esaminare lo schema di decreto anti-delocalizzazioni, predisposto dal Ministro del Lavoro, Andrea Orlando, assieme al viceministro allo Sviluppo economico, Alessandra Todde. I contenuti di una bozza circolata nei giorni scorsi ha suscitato severe critiche nei confronti del ministro Orlando da parte del presidente della Confindustria Carlo Bonomi nel suo intervento al Meeting di Rimini.

A quanto scrivono i giornali che si erano entusiasmati per i contenuti della prima stesura, pare che sia in atto una marcia indietro significativa (ovviamente disapprovata da quanti avevano salutato quel testo perché finalmente ‘’metteva al loro posto’’ le multinazionali che vengono e vanno senza preoccuparsi troppo delle conseguenze sociali determinate dalle loro decisioni). Per farla breve, la bozza prevedeva che le imprese che al 1° gennaio dell’anno in corso occupassero almeno 250 dipendenti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che intendessero procedere alla chiusura di un sito produttivo situato nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendesse probabile la crisi o l’insolvenza fossero tenute a dare comunicazione preventiva con l’indicazione delle ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative del progetto di chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato e il termine entro cui è prevista la chiusura.

Seguivano una serie di obblighi riguardanti la presentazione di un piano contenente le misure per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali la ricollocazione presso altra impresa, le misure di politica attiva del lavoro, quali servizi di orientamento, assistenza alla ricollocazione, formazione e riqualificazione professionale, finalizzati alla rioccupazione o all’autoimpiego. Il piano era sottoposto ad un giudizio preventivo di una non ben identificata ‘’struttura per la crisi della impresa’’, chiamata, sentite le organizzazioni sindacali e l’Anpal ad approvare il piano stesso qualora dall’esame complessivo delle azioni in esso contenute risultassero sufficienti garanzie di salvaguardia dei livelli occupazionali o di rapida cessione dei compendi aziendali. La procedura di licenziamento collettivo non potrebbe essere avviata prima della conclusione dell’esame del piano a pena di pesanti sanzioni di natura economica.

Per allontanare il sospetto di nostalgie dirigistiche sia Enrico Letta che altri esponenti del Pd erano intervenuti in difesa di Orlando sostenendo di essersi ispirati – nientemeno – ad un’analoga legge francese del 2014, la cosiddetta Loi Florange dal nome del comune francese dove aveva sede uno stabilimento di ArcelorMittal, che negli anni scorsi è stato interessato da un cospicuo processo di ridimensionamento. La legge – nata da una polemica contro le multinazionali ‘’pirata’’ prevedeva che le imprese con più di mille dipendenti (quattro volte quelli contenuti nella bozza Orlando-Todde) prima di avviare procedure di licenziamento collettivo, si impegnassero nella ricerca di un acquirente per garantire la continuità produttiva dei loro siti industriali, motivando eventuali rifiuti. In caso contrario, erano previste sanzioni fino a 20 volte il salario minimo per ogni occupato, con un tetto del 2 per cento del fatturato (oltre alla facoltà per il Governo di chiedere la restituzione degli eventuali sussidi ricevuti nel biennio precedente). Questa vicenda ha però un seguito. A raccontarlo ci ha pensato un editoriale dell’Istituto Bruno Leoni (IBL).

Quel provvedimento, infatti, è stato in gran parte rigettato dal Consiglio Costituzionale transalpino e, nei fatti, è praticamente inutilizzabile ed inutilizzato. I giudici costituzionali francesi hanno cassato una parte cruciale della legge, quella secondo cui l’impresa era obbligata ad accettare le offerte d’acquisto prima di cessare le operazioni, a meno che non compromettessero la continuità della produzione stessa. Di fatto, dunque, della loi Florange rimangono solo alcuni scarni obblighi informativi e la possibilità di chiedere indietro gli eventuali sussidi ricevuti.

È davvero bizzarro – commenta l’Istituto – che il Ministro del Lavoro stia spingendo con tanta forza per una norma che, nel paese a cui egli stesso si ispira, è stata bocciata perché eccessiva, punitiva e inefficace. Non c’è alcuna ragione al mondo per pensare che le cose, in Italia, andrebbero altrimenti; né che anche nel nostro paese la legge non potrebbe essere censurata sotto quegli stessi profili di tutela della libertà di impresa che ne hanno determinato la bocciatura oltralpe. Perfino la parte meno controversa della norma, relativa alla restituzione degli aiuti di Stato in caso di chiusura – se limitata ai sussidi specificamente finalizzati a creare o mantenere occupazione – rischia di fare acqua. Da un lato, infatti, è già prevista non solo dal Decreto Dignità (e non viene applicata, come ha ricordato Marco Bentivogli in un servizio del Corriere della Sera, ma spesso anche dai bandi con cui gli aiuti vengono erogati. Dall’altro – spiega IBL – non è difficile aggirare i vincoli attraverso poste contabili che facciano emergere squilibri patrimoniali, magari anticipando l’iscrizione di quelle negative. Infine, e più importante, la questione non riguarda solo l’opportunismo delle multinazionali (che c’è) ma il pessimo disegno degli incentivi e, ancor più, l’idea che il potenziale di crescita del Pil nel lungo termine sia figlio della spesa pubblica.

E’ poi il caso di aggiungere, inoltre, alcune altre considerazioni. In primo luogo la libertà di circolazione delle persone, dei capitali e delle merci è un presupposto dell’economia internazionale. E una struttura produttiva come la nostra che tanto dipende dall’export non ha interesse a sollecitare vincoli alla circolazione in un libero mercato. Anche perché nessun governo è più furbo di quello di altri Paesi tanto da permettersi di porre delle limitazioni agli investimenti esteri senza doversi aspettare che altri governi facciano le stesso. Infine quando in un Paese sono presenti, in modo rilevante, settori produttivi ‘’maturi’ nei quali il costo del lavoro rappresenta una componente importante, è naturale che gli investitori cerchino allocazioni degli insediamenti laddove questo costo può essere ridotto. Spesso la delocalizzazione di parti della produzione ad alta intensità di manodopera è la condizione necessaria per conservare in Italia e in Europa aziende complessivamente competitive.

Poi diciamoci la verità: il dumping sociale non è una pratica di sfruttamento delle economie più arretrate. Molto spesso è la principale convenienza di cui esse possono avvalersi per svilupparsi. Per concludere davvero una domanda: per quanto sia importante salvare anche un solo posto di lavoro, qualcuno è convinto che il futuro del nostro apparato produttivo dipenda dall’esito delle vertenze riguardanti quelle quattro aziende che sono salite agli onori della cronaca e che orientano le nostre politiche del lavoro, a partire dalle proposte di riforma degli ammortizzatori sociali che non è finalizzata, nella versione Orlando, a sostenere la ripresa ma a compensare in qualche modo il superamento del blocco dei licenziamenti?

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