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Quota 100

Tutte le conseguenze (economiche) della glaciazione demografica in Italia

Che cosa emerge dal working paper ‘’L’Italia nella glaciazione demografica’’ curato dalla Fondazione Ezio Tarantelli. L'orticolo di Giuliano Cazzola

 

La Fondazione Ezio Tarantelli ha pubblicato un working paper dal titolo ‘’L’Italia nella glaciazione demografica’’ nel quale – con un serie di articoli che forniscono un quadro completo – vengono affrontati gli effetti combinati della denatalità e dell’invecchiamento sulle politiche pubbliche, sociali e pensionistiche e sanitarie in particolare.

È complessivamente un approfondimento molto utile in tempi come gli attuali in cui i grandi soggetti collettivi, a partire dai sindacati (compresa la Cisl, l’organizzazione promotrice della Fondazione e quindi dello studio) affrontano temi delicatissimi – come la questione delle pensioni – con la testa nel sacco di un’ideologia ormai collassata nell’opportunismo, senza darsi cura dei grandi problemi che rappresentano il tapis roulant su cui camminano le misure da assumere in materia di finanza pubblica e di welfare.

Nell’editoriale il presidente della Fondazione Giuseppe Gallo riassume in pratica tutto il dibattito in una sintesi in cui i diversi autori vengono citati in una sequenza di continuità come i temi che affrontano nei loro scritti. La curva di natalità in Italia (Alessandro Rosina) ha subito un crollo repentino ed accentuato negli anni Ottanta del secolo scorso. Alla fine di quel decennio l’Italia era il paese con la più bassa fecondità del mondo. La tendenza è proseguita: il numero delle nascite si assestò intorno alle 500.000 annue negli anni Novanta (da oltre un milione annue a metà degli anni Sessanta). Nel 2020 è stato raggiunto il livello più basso (404.000) dall’Unità d’Italia, con un tasso di fecondità pari a 1,24 figli per donna.

L’effetto pandemico nel 2021 aggraverà la tendenza. Viene poi sottolineata (Simona Costagli) la natura duale del fenomeno: la caduta demografica è, infatti, associata all’aumento del numero degli anziani in rapporto alle altre coorti di età. Il Covid-19 ha ridotto l’aspettativa di vita alla nascita in Italia, da 83,2 anni nel 2019 a 82,0 nel 2020 (79,7 anni per gli uomini, -1,4 anni sul 2019; 84,4 anni per le donne, -1 anno sul2019), ma la tendenza di lungo periodo non muta. Nel 1950, infatti, l’aspettativa di vita era pari a 66,5 anni e gli over 65 erano l’8,1% della popolazione totale; nel 2020 erano il 23,5%; nel 2049 la stima sale al 33,9% della popolazione italiana. Simmetricamente, nel 1950 i giovani fra zero e 14 anni erano il 26,7% della popolazione totale; nel 2020 sono crollati all’11,8%.

Nel gennaio 2021 gli ultracentenari in Italia erano 17.935, record mondiale condiviso con la Francia. Quali sono, allora, i fattori che determinano e governano la tendenza, in atto, alla denatalità ed all’invecchiamento e le strategie alle quali, implicitamente, rinviano?

La risposta di Massimo Calvi e Francesco Riccardi è netta: «Il principale motore della riduzione della fecondità è lo sviluppo che porta ad aumentare il rapporto costi/opportunità dei figli, ma soprattutto cambia la prospettiva delle donne, rendendole (giustamente) libere di studiare ed affermarsi sul mercato del lavoro. Ma sviluppo fa anche rima con urbanizzazione», già maggioritaria dal 2009 e destinata ad accogliere nelle città il 70% della popolazione mondiale nel 2050.

Gli stili di vita metropolitani, miscelando elementi critici di fondo come una vita più stressante in contesti più inquinati, insieme ad ingredienti sociali quali il consumismo e l’individualismo, hanno dimostrato di essere in grado di trasformare la struttura stessa della famiglia, delineando uno scenario in cui il figlio diventa una delle tante opzioni possibili di realizzazione personale, uno di molti prodotti del “supermercato delle opportunità’’ persino un optional, quando non un lusso».

La quota di persone che vivono sole in Italia (33,3%) ha superato, infatti, il numero di coppie con figli (33%). A Milano il 50% delle famiglie è unipersonale, in gran parte anziani soli, rimasti isolati durante il lockdown. In Italia nel 2020 i single erano 4,8 milioni (+52% rispetto al 2003); i genitori soli 1,5 milioni (padri +107%, madri +59,7% rispetto al 2003); le libere unioni 1,2 milioni ( +108% rispetto al 2003); -3,2% le coppie sposate e -7,9% le coppie sposate con figli rispetto al 2003. Indici eloquenti del cambiamento profondo nella concezione dei legami sociali ed affettivi e delle responsabilità (Andrea Cuccello).

I nodi irrisolti all’origine del fenomeno risiedono nell’età, via, via maggiore di generazione del primo figlio, conseguente alle grandi difficoltà dei giovani di conquistare l’autonomia dalla famiglia; gli ostacoli organizzativi nella conciliazione vita familiare-lavoro dopo la nascita del primo figlio che inibiscono la nascita potenziale dei figli successivi; l’alto rischio di povertà, soprattutto oltre il secondo figlio (Alessandro Rosina).

Un’articolazione del modello di sviluppo che scoraggia la formazione delle famiglie e la propensione a generare è rappresentata dalla struttura del mercato del lavoro e dal basso tasso di occupazione delle donne. Il rapporto fra occupazione femminile e tasso di fecondità ha segni opposti a seconda dell’intervento o della latitanza di politiche di sostegno alla maternità, politiche di conciliazione, congedi di maternità e di paternità, servizi all’infanzia.

Nelle province meridionali del nostro paese, infatti, al crescere dei tassi di occupazione femminile si associa un minor numero medio di figli per donna. Lavorare ed avere figli, in assenza o nell’insufficienza di sostegni e servizi dedicati, diventa conciliazione ardua e temeraria al punto da scoraggiarla preventivamente.

Nel Centro Nord, la relazione è inversa: nelle province con tasso di occupazione femminile, mediamente, più alto, anche il tasso medio di fecondità risulta più elevato. Il rapporto è confermato anche in numerosi paesi Ocse (Simona Costagli).

Un’analisi particolare (Linda Laura Sabbadini) rivendica l’esigenza di creare un contesto favorevole alla maternità ed alla paternità, mentre in Italia, al contrario, «tutto rema contro»: organizzazione del lavoro rigida, ruoli familiari rigidi, politiche di sostegno alla famiglia e servizi all’infanzia residuali. L’investimento nell’assistenza ad anziani e disabili è pari ad ¼ delle risorse impegnate dalla Germania.

Il mercato del lavoro è, obiettivamente, discriminatorio: il 20% delle lavoratrici interrompe il lavoro alla nascita del figlio; il rientro post maternità è, spesso, gravato da difficoltà organizzative; si ripiega, pertanto sul part time; al minor salario si accompagnano interruzioni successive dell’attività lavorativa; si arriva all’agognata pensione con un assegno mediamente inferiore del 46% rispetto alla pensione media maschile.

Le tendenze contrastanti fra tassi di natalità (in caduta) ed aspettativa di vita (in crescita), si riflettono sull’asimmetria fra riduzione della popolazione attiva ed aumento del numero dei pensionati (Gabriella Di Michele, direttore generale dell’Inps).

L’Italia presenta i valori massimi della polarizzazione in Europa: la percentuale più bassa di giovani (13,2%) e più alta di anziani (22,8%). Egualmente, mentre l’indice di dipendenza anziani, al 1° gennaio 2019, (rapporto fra il numero degli anziani e la popolazione attiva) in Europa è pari al 31,4%, in Italia è massimo al 35,7%, poco più di 3 persone in età lavorativa per ogni persona di età pari o superiore a 65 anni.

L’asimmetria fra riduzione della popolazione attiva ed aumento dell’area dei pensionati è, ormai, una tendenza strutturale di lungo periodo sia in Europa, sia in Italia. Ne consegue un aumento della spesa pubblica age-related (spesa pensionistica + spesa socio-sanitaria) con impatto sulla sostenibilità del sistema di welfare. L’attesa della speranza di vita a 65 anni «guida la futura traiettoria dei requisiti di accesso al pensionamento».

Due cambiamenti strutturali determineranno, prevalentemente, la spesa pensionistica nei prossimi decenni:

a. il pensionamento e la successiva scomparsa delle coorti dei baby boomers;

b. il passaggio al regime di calcolo interamente contributivo.

Le riforme hanno contribuito a mettere in sicurezza il sistema pensionistico «ma solo migliorando i modelli di produzione del reddito si potrà garantire il patto intergenerazionale e adeguati livelli di finanziamento dello Stato sociale».

«È improbabile che la diminuzione della popolazione in età attiva verrà compensata da una più elevata intensità di capitale». Ne consegue la necessità di allargare la partecipazione delle generazioni anziane al mercato del lavoro, distribuire efficacemente le competenze, accrescere la produttività del lavoro, aumentare la loro pensione, «per mitigare gli effetti negativi dell’invecchiamento sulla produzione».

L’indice di invecchiamento attivo (Active Aging Index), elaborato dall’Istat, in collaborazione con istituti internazionali, vede l’Italia al 17° posto su 28 paesi del ranking europeo, due punti sotto la media continentale, con una regressione fra il 2012 ed il 2018. L’occupazione giovanile è fra le più basse in Europa ed il numero dei Neet detiene il primato.

L’occupazione femminile, nella fascia di età 55-64 anni ha un’elevata percentuale di part time per l’incidenza dei compiti di cura, con effetti negativi sulle future prestazioni previdenziali.

La pandemia ha reso ancora più urgente la diffusione di una politica di invecchiamento attivo lungimirante ed efficace. mancano proposte di riforma di notevole interesse.

Per la prima volta, nella storia italiana, sono negativi sia il saldo naturale (le morti superano le nascite), sia, dal 2018, il saldo migratorio (gli emigrati superano gli immigrati). Negli ultimi 6 anni oltre un milione di italiani si è trasferito all’estero, per cercare occupazione ed un miglior sistema di welfare.

La vulgata secondo la quale gli immigrati sottraggono occupazione agli italiani è priva di fondamento. L’80% dei giovani italiani, per lo meno diplomato, non è, infatti, disponibile a svolgere i lavori degli immigrati: badanti, colf, braccianti in agricoltura, manovalanza in edilizia, cooperative di carico-scarico, piccoli trasporti, pulizie e cucina nel settore alberghi ristorazione.

Nell’ipotesi controfattuale che tutti gli immigrati in Italia fossero rimpatriati ed il blocco a nuove immigrazioni fosse totale, l’occupazione per gli italiani crescerebbe in quantità residuali ed in lavori a bassa qualificazione, mentre resterebbe immutata la condizione dei giovani laureati e diplomati ai quali il mercato del lavoro offre poche prospettive.

Bisogna ripartire dal presupposto fondamentale della prima domanda: l’immigrazione, così come l’emigrazione, sono parti della più ampia questione demografica e vanno considerate insieme. Le migrazioni sono un fenomeno che va governato, non combattuto, né in ingresso né in uscita.

Il punto è delicato ma l’unico modo serio è riaprire canali regolari di ingresso, programmati, controllati e selezionati anche in base alle esigenze del mercato del lavoro, in collaborazione con i paesi di origine. Canali di ingresso specifici, sul modello dei corridoi umanitari, vanno ipotizzati solo per i richiedenti asilo. Tutte le politiche vanno attuate cercando la collaborazione dell’Europa, non fuggendo dal confronto e dal negoziato.

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