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Perché non servono web tax nazionali. Il libro di Ghiselli

Estratto del libro "Giù le tasse, ma con stile! - Idee di un sognatore per un fisco equo, giusto e solidale" (Franco Angeli) di Fabio Ghiselli

L’approccio si fonderebbe sull’introduzione di un’imposta sostitutiva sul reddito generato da attività digitali come innanzi indicate che rientrerebbe nell’ambito dell’imposizione diretta e sarebbe “coperta” dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.

Questa circostanza dovrebbe impedire la bocciatura della Commissione UE che ha coinvolto la proposta originaria di Web tax inserita nella bozza di l. n. 145/2018, che prevedeva l’applicazione di una ritenuta sui ricavi digitali. Considerato che l’obiettivo fondamentale di una Web tax (temporanea) è quello di contrastare fenomeni elusivi, di sottrazione di base imponibile e di imposte nel Paese in cui sono svolte queste attività e si crea il valore, potrebbe essere adottato un principio analogo a quello che governava la disciplina sulle c.d. Cfc white list (Controlled foreign companies, di cui al previgente art. 167 del Tuir):

• si applicherebbe la Web tax sui ricavi lordi derivanti da attività digitali (o su una percentuale forfetizzata, per esempio il 75%, degli stessi ricavi per tenere conto dei costi). I soggetti non residenti in Italia (comunitari ed extra-UE) sarebbero soggetti all’imposta qualora fossero assoggettati a una tassazione effettiva inferiore ai due terzi (o alla metà) di quella cui sarebbero stati soggetti se residenti in Italia. In questo modo si attenuerebbero le disparità tra imprese, domestiche ed estere, che scontano un livello di tassazione congrua e quelle che fanno ricorso a pratiche di tax planning aggressive. Questa circostanza non sarebbe difficile da verificare da parte dell’AF, perché sussistono gli strumenti operativi attivabili: il già ricordato meccanismo del Country by Country reporting, e il composito sistema dello scambio automatico obbligatorio di informazioni in materia fiscale riconducibile alla direttiva 2011/16/UE (Dac 1) e alle modifiche e integrazioni apportate dalle direttive Dac 2, Dac 3 e Dac 6, tutte già adottate in Italia con appositi provvedimenti legislativi, e all’accordo Fatca con gli USA;

• l’imposta si sostanzierebbe in una ritenuta da applicare a titolo di acconto per i soggetti residenti in Italia e per le stabili organizzazioni di soggetti non residenti, e a titolo d’impostaper i soggetti non residenti e privi di una stabile organizzazione(12). L’aliquota potrebbe essere mantenuta pari al 6% (ovvero
spingersi fino al limite del 15% previsto per interessi, dividendi e royalties dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni). La tassazione subìta in acconto dovrebbe essere recuperata in sede di dichiarazione dei redditi e di liquidazione dell’imposta. Allo scopo di evitare che possano perpetuarsi ipotesi di pianificazione fiscale aggressiva e manipolazioni nei prezzi di trasferimento, perché la presenza stabile sul territorio italiano non impedirebbe di “gestire” gli intangibles allo scopo di minimizzare il carico fiscale, il recupero dell’imposta trattenuta in acconto potrebbe essere subordinato alla chiusura di un apposito ruling con l’Agenzia delle entrate, redatto sulla base di criteri di dettaglio per la formazione del valore previsti in materia di transfer pricing;

• considerato che tutti i pagamenti da chiunque effettuati, avvengono mediante strumenti di pagamento tracciati – carte di credito, pagamenti elettronici, bonifici ecc. – per mezzo di operatori finanziari, nessuna difficoltà avrebbero questi soggetti a provvedere all’applicazione della ritenuta e al relativo versamento all’erario, così come già avviene oggi per altre operazioni cross-border;

• atteso che anche in relazione a questa imposta sui profitti potrebbero sorgere fenomeni di evasione, sarebbe il caso di estendere a essa la disciplina penale di cui al d.lgs. n. 74/2000, oggi limitata alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (13).

Come già osservato, i ricavi di un’impresa globale sono mobili, al pari dei dividendi, interessi e royalties, per cui sarebbe il caso di adottare «un rovesciamento di prospettiva rispetto al passato, quando si era ritenuto di non assoggettare i ricavi d’impresa a ritenuta in uscita proprio nel presupposto che essi non fossero mobili e fossero generati da insediamenti produttivi stabili sui territori» (14).

In conclusione giova ricordare che la soluzione del problema di un’equa tassazione non può essere affidato, nel medio-lungo periodo, a un intervento nazionale perché sarebbe poco incisivo.

È necessaria, invece, una risposta sovranazionale che tenga conto delle diverse modalità con le quali viene esercitato il business: ci sono le vendite di beni fisici che vengono gestite direttamente dal produttore tramite il Web, o intermediate da soggetti che si avvalgono di piattaforme internet, come Amazon; ci sono le prestazioni di servizi, video, musicali, pubblicitarie ecc.; c’è la gestione dei dati personali (big data) che noi forniamo “spontaneamente” ogniqualvolta accediamo a un sito Internet, compriamo un bene o un servizio, o utilizziamo un servizio messo gratuitamente a disposizione da applicazioni di vario genere, o facciamo una qualunque ricerca su internet, anche senza comprare alcunché.

Sono dati che hanno un valore per chi ne entra in possesso, perché li può elaborare direttamente per incrementare il proprio business, o li può cedere a terzi che, a loro volta, li potranno rielaborare e vendere ad altri soggetti. Noi creiamo valore, ma questo valore può crescere a ogni elaborazione, a ogni passaggio “di mano”.

Questo significa che una soluzione impositiva non può essere valida ed efficace per tutte le differenti situazioni. Per cui al legislatore nazionale e sovra-nazionale si richiede una composita, quanto complicata, risposta alle evoluzioni dell’economia, che dovrà sempre essere ispirata a ragioni di equità e correttezza, e mai punitive o “predatorie” nei confronti delle imprese.

E i cultori del diritto tributario non possono sottrarsi al dovere di contribuire alla soluzione del problema, nella piena consapevolezza che qualunque tentativo di definizione non potrà trovare la sua fonte, la sua origine, nei tradizionali schemi, principi e istituti del diritto, perché anche questi non sono più adeguati all’evoluzione dell’economia.

NOTE

12) Sono note le criticità che una tale forma di imposizione porterebbe con sé, e che lo stesso Ocse ha sollevato ma che non hanno impedito di formulare comunque tale proposta: si tratta del principio di non discriminazione sancito sia a livello europeo che internazionale (si veda Corte di Giustizia UE, sentenze, C-234/01 Gerritse; C-345/04, Centro Equestre; C-450/09, Schroder; C-559/13 Grunewald; e art. III, del Gatt). Ma si tratta di una scelta politica che, per esigenze di salvaguardia degli interessi della maggior parte dei Paesi del mondo e comunitari, potrebbe modificare lo stesso principio. Soluzione che non sarebbe isolata, dal momento che altri Paesi hanno intenzione di introdurre una withholding tax: il Pakistan (5%), la Thailandia (15%), lo Sri Lanka (14%), il Cile (10%), il Brasile (15%), l’Ecuador (25%), Taiwan (20% sulla quota del 30% dei profitti).
13) Idea emersa dal confronto tra i partecipanti all’incontro di studio organizzato dalla rivista online Youtax.it e dal Centro di Diritto penale tributario a Milano
lo scorso 27.3.2019.
14) Assonime, “La fiscalità d’impresa nel nuovo mondo globalizzato e digitalizzato”, Note e studi, 1/2017.

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