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Taglio dei parlamentari? E perché non battersi in Europa per rottamare il Fiscal compact?

Il commento di Gianfranco Polillo

 

Difficile solo poter immaginare quali potranno essere le conseguenze di una giornata parlamentare come quella appena trascorsa. Tutta vissuta all’insegna del primum vivere deinde philosophari. Dove un tatticismo esasperato l’ha fatta da padrone, nel susseguirsi dei colpi di scena, che hanno fatto dell’Aula del Senato un grande ed inedito palcoscenico. Più che azzardare ipotesi, allora, non resta che aggrapparsi sugli elementi meno labili.

L’articolo 4 della legge costituzionale, che riduce il numero dei parlamentari, entrerà in vigore dopo i canonici 15 giorni dalla sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. Le relative disposizioni, tuttavia, “si applicano a decorrere dalla data del primo scioglimento o dalla prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale e comunque non prima che siano decorsi sessanta giorni dalla predetta data di entrata in vigore”

La sintassi, come spesso capita al nostro legislatore, non è delle più felici. Risulta tuttavia evidente che esiste un interregno di almeno due mesi e mezzo dalla data di approvazione. Una terra di nessuno in cui sono ancora vigenti le vecchie disposizioni. Per cui se lo scioglimento avviene in questo intervallo, si torna a votare per il vecchio plenum del Parlamento. Mentre il taglio scatterà, se non vi saranno ulteriori interventi, soltanto al termine della nuova legislatura. Circostanza che contribuisce a spiegare il coup de théâtre di Matteo Salvini.

La sua speranza, quindi, è che si possa giungere al termine della legislatura entro questo breve intervallo. Si eviterebbe, in tal modo, di prolungare una lunga agonia. Superate quelle colonne d’Ercole, infatti, i tempi si allungherebbero e non di poco. Visto che occorrerà rispettare i tempi per l’eventuale referendum confermativo, quindi, quanto meno, ridisegnare i collegi elettorali, se non modificare, addirittura, la relativa legge. Insomma: un percorso di guerra, in cui tutto può succedere.

Una speranza fondata? I singoli parlamentari dovranno affrontare un piccolo dilemma personale. Scegliere tra l’uovo o la gallina. Se vorranno rimanere in carica, devono sapere che molti di loro, nella prossima legislatura non torneranno a sedere sugli scranni della Camera o del Senato. Perché scatterà la tagliola della riduzione del loro numero. Se invece rinunceranno, potranno sempre sperare di essere rieletti e chissà che quella legge, fortemente voluta dai 5 stelle, le cui fortune sono declinanti, non potrà essere modificata. Un ulteriore elemento di incertezza in una situazione che più confusa non si può.

Due sono le condizioni indispensabili per stabilire un diverso rapporto con l’Europa: una profonda discontinuità politica, sul piano interno, e la capacità di cogliere le contraddizioni più profonde della politica finora seguita. Si tratterebbe, in altre parole, di fare ciò che la Commissione europea non ha voluto fare: quella verifica dei risultati raggiunti, come previsto dall’articolo 16 del Trattato internazionale che ha istituito il Fiscal compact. Tenendo conto della sonora bocciatura di quel groviglio di norme da parte del Parlamento europeo, quando la Commissione cercò di inserirle nell’ordinamento europeo.

Gli orfani della politica di austerity potranno sempre eccepire, ricordando che quelle norme fanno parte di un accordo intergovernativo. Ma non potranno negare che il voto contrario del Parlamento europeo ha determinato un vulnus che è, al tempo stesso, giuridico e democratico. Che incide direttamente sulla loro legittimazione, aprendo le porte ad una contestazione più che necessaria. Il punto di partenza per individuare la necessità di una diversa regolamentazione, come norma di carattere generale. Non si tratta allora di chiedere “sconti” per un singolo Paese, ma avviare una riflessione più generale che si muove nel solco degli stessi Trattati europei.

Il punto di partenza di questa rivisitazione deve essere l’articolo 4 del Trattato, ed i suoi ulteriori sviluppi. Gli articoli 121, 122 e 134. Essi mettono l’accento sulla necessità di combattere gli squilibri macroeconomici dei singoli Paesi europei, specie se questi squilibri possono avere una ricaduta di carattere più generale. Da questo punto di vista, l’eventuale intervento della Commissione europea segue la procedura già prevista per i deficit eccessivi o per la violazione della regola del debito. Fino all’ipotesi dell’apertura di una procedura d’infrazione.

I possibili sintomi di questi squilibri macroeconomici sono stati indicati (Scoreboard for the surveillance of macroeconomic imbalances) con la solita (maniacale) precisione. Dieci indicatori, suddivisi in due grandi raggruppamenti: con un gruppo che fa capo agli squilibri esterni e di competitività, ed un secondo ristretto ai fattori esterni. Rientrava nel primo gruppo il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, da contenere entro il meno 4 per cento del Pil e il più 6 per cento. La posizione patrimoniale netta con l’estero (valore di soglia –35 per cento del Pil). Quindi il tasso di cambio reale effettivo, la quota di mercato delle esportazioni, il costo unitario del lavoro.

Gli indicatori del malessere interno, a loro volta, il tasso di crescita del prezzo degli immobili, il debito privato, il credito bancario alle imprese, il debito delle amministrazioni pubbliche, il tasso di disoccupazione, il tasso di crescita delle passività del sistema finanziario. Combinando insieme quest’insieme di elementi era possibile effettuare una radiografia dello stato di salute di ciascun Paese. Come si vede una valutazione ben più sofisticata, rispetto alle rozze rigidità del Fiscal compact. Che riassume il tutto in un semplice e poco significativo dato numerico.

Deve essere questa la nuova base dell’Alert Mechanism, dopo aver mandato in soffitta il vecchio Fiscal compact? L’Italia ne avrebbe tutto da guadagnare. Ma non è questo il punto. Dobbiamo forse abituarci all’idea che un vecchio mondo volge al tramonto. Vi sono Paesi, come gli Usa o la Cina, che non sono più disposti a fare da “locomotiva” per trainare lo stanco convoglio dell’economia mondiale. Finora l’Europa, con i suoi forti attivi della bilancia commerciale, non ha pagato dazio. Ma tratto vantaggio da un impegno altrui, che sembra volgere alla fine. Forse è giunto il momento che una delle aree più sviluppate del mondo, vale a dire l’Europa stessa, faccia la sua parte, reflazionando la propria economia. Per questo sarebbe opportuno abbandonare del tutto lo schema del Fiscal compact, per approdare ad un sistema più maturo per le necessarie diagnosi, che sono il presupposto delle successive linee di politica economica.

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