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Tunisia

Superbonus, tutti gli effetti del ricalcolo Istat

Che cosa cambia dopo la decisione Istat sull'impatto dei bonus edilizi sulla finanza pubblica. L'analisi di Gianfranco Polillo

Gli ultimi dati Istat sull’andamento del Pil nel 2022 e sui conti pubblici, sempre riferiti allo stesso periodo, consentono di tagliare la testa al toro. Fornirebbero anche un responso definitivo, dopo tante polemiche, se autorevoli esponenti dei 5 Stelle – Patuanelli è uno di quelli – si arrendessero di fronte all’evidenza. Ma, purtroppo, così non è. Ed ecco allora la necessità di tornarci sopra, per prendere atto delle novità che essi recano: a partire dalla crescita del Pil, che perde due decimali rispetto alle prime rilevazioni di qualche mese fa. Nel 2022 il Pil italiano è cresciuto del 3,7 per cento, rispetto alla precedente previsione del 3,9. Comunque un ottimo risultato, se solo si considera che la Germania, nello stesso periodo è cresciuta dell’1,8 per cento.

La parte più delicata delle più recenti rilevazioni riguarda, tuttavia, i principali aggregati di finanza pubblica. Le nuove regole europee hanno imposto quel che, nelle ultime ore, si temeva. Vale a dire una diversa contabilizzazione delle spese collegate al “super bonus del 110 per cento per l’edilizia” ed al cosiddetto “bonus facciata”. Peseranno sul bilancio dello Stato non in ragione della scalettatura finanziaria originariamente prevista, ma direttamente sull’esercizio in cui è stata presentata la domanda di rimborso. Le differenze sono evidenti.  È come acquistare qualcosa a rate oppure pagando l’intera somma nel momento in cui si entra in possesso dell’agognato bene.

A che si deve il cambiamento? Al fatto che il bonus poteva essere spesato in due modi diversi. Poteva dar luogo ad un credito d’imposta nei cinque anni successivi oppure essere ceduto all’impresa, chiamata a realizzare i lavori. La quale, a sua volta, poteva scontarlo in banca per avere la provvista finanziaria necessaria per eseguire il lavoro. Nel primo caso – dicono i burocrati di Bruxelles – si tratterebbe di crediti “non-payable”. Nel secondo di crediti “payable”. Come tali destinati ad essere registrati, dal punto di vista dei conti pubblici, in un solo anno.

Un’ingiustizia? Forse si: considerato che i crediti non-payable possono essere utilizzati solo dai benestanti. Avendo un reddito superiore ai 70 mila euro l’anno – questi i calcoli effettuati – possono tranquillamente scaricare sul proprio carnet fiscale i crediti maturati, pagando la differenza. Ma i poveri cristi, che non godono di questa condizione; che sono, come si dice “incapienti”, sono esclusi da questo privilegio. Per cui il bonus lo potevano prendere solo nella versione payable. Vale a dire con la relativa cessione. Certo: ci si poteva pensare prima. Limitando ad esempio la possibilità di cedere il credito solo per i meno abbienti. Ma non era stato questo lo spirito che aveva animato il provvedimento originario: rivolto essenzialmente a favorire in modo indistinto i proprietari di immobili. Nella speranza di un successivo lucro politico, in termini di consenso.

Che poi il diavolo ci abbia messo la coda è cosa abbastanza evidente. Ma questa circostanza non scagiona le colpe di chi, con grande leggerezza, aveva tentato il colpaccio. Oggi scoperto e neutralizzato con una ri-contabilizzazione nuova di zecca. Che ha comportato una rivalutazione dell’onere, relativo agli esercizi 2010 – 2011, pari a 41,6 miliardi di euro. Quasi tutto a valere sul 2011. Di conseguenza il deficit di bilancio, già elevato per suo conto, è aumentato di 0,2 punti di Pil nel primo caso e di 1,8 punti di Pil nel secondo. Vale a dire dal 9,5 per cento al 9,7. E dal 7,2 al 9 per cento. In quegli stessi anni il deficit dell’intera Unione europea (escludendo l’Italia) è stato pari rispettivamente al 6,6 ed al 4,8 per cento: 32 per cento in meno nel primo caso; 47 nel secondo. Differenze che, per fortuna, non hanno avuto ulteriori conseguenze. Il ritardo nell’applicare le nuove regole ha, infatti, consentito all’Italia di beneficiare di uno spread minore sui titoli emessi. In media nel biennio 2020-21 esso è stato pari a 134,7 punti base. Contro gli oltre 180 di questi ultimo tempi.

Sospiro di sollievo, quindi, da parte del Ministero dell’economia. Che in un comunicato: “prende atto delle decisioni degli istituti di statistica indipendenti che mettono un punto fermo sulla vicenda contabile: i riflessi sul bilancio dei bonus edilizi e delle cessioni dei crediti introdotti a decorrere dal 2020. Il governo con trasparenza, coerenza e responsabilità – continua la presa di posizione – è impegnato ad assicurare un’uscita sostenibile da misure non replicabili nelle medesime forme. La correzione delle norme sui bonus edilizi è stato l’indispensabile presupposto a tutela dei conti pubblici per il 2023, invertendo una tendenza negativa certificata oggi dall’Istat. Parimenti il governo è al lavoro con tutti i soggetti interessati per risolvere il grave problema di liquidità finanziaria delle imprese ereditato da imprudenti misure di cessione del credito non adeguatamente valutate nei loro impatti al momento della loro introduzione».

Presa di posizione che Patuanelli non ha gradito: “Il Governo sta preparando l’ennesima retromarcia,” – ha gridato allarmato – per poi aggiungere che il presunto “grande buco che ha sfasciato i conti pubblici non è mai esistito”. Anzi “secondo l’Istat il rapporto debito/PIL nel 2022 si attesta al 144,7% contro il 149,8% del 2021. Il dato è migliore delle stime della Nadef che indicavano per lo scorso anno un debito al 145,7% del Pil (per la verità 145,1 ndr.), questo nonostante il ricalcolo del deficit” di cui si è detto in precedenza. Poi un lungo peana a favore del Conte 2, sotto il cui usbergo il Pil è cresciuto come non mai, ogni regola contabile è stata rispettata ottenendo il plauso dell’Europa, mentre gli equilibri di finanza pubblica sono stati garantiti “nonostante la devastante crisi legata alla pandemia”.

Sogni di una notte di mezza estate, dato che che il rapporto debito – Pil, nel solo 2020, è aumentato di 20,8 punti base: l’incremento più alto del periodo post-bellico e quasi il doppio della media europea. Però – si premura di sottolineare Patuanelli –  per il 2022 il rapporto debito/Pil è risultato leggermente migliore di quello indicato nella Nadef. Con una differenza di 0,4 punti: aggiungiamo noi. Che tuttavia deriva quasi esclusivamente – ma lui non lo dice – da un Pil maggiore, rispetto alle stime originarie, a causa di un’inflazione più alta del previsto. Non proprio un grande merito.

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