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Salvini, Conte, Tria e i troppi Temporeggiatori in economia e finanza pubblica. L’analisi di Polillo

L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Alla fine Matteo Salvini (giustamente) si è arrabbiato. Presa carta e penna, ha scritto al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, per chiedergli di impostare con l’Europa un confronto in termini “non convenzionali”. Usiamo di proposito questo termine, memori della grande lezione di Mario Draghi. Nel frattempo è proseguito il ruvido confronto con il ministro dell’Economia, Giovanni Tria.

Molti costituzionalisti di sinistra hanno storto il naso, dimentichi di quando salivano in cattedra per spiegare le differenze tra la Costituzione scritta e quella materiale. Se quelle teorie, enunciate quando il Pci era all’opposizione, valevano allora, a maggior ragione dovrebbero regolare, oggi, i rapporti istituzionali, all’indomani di quei risultati elettorali che hanno cambiato il volto del Paese. Quindi piena legittimità. Il leader della principale forza politica italiana ha tutto il diritto (se non il dovere) di farsi interprete di una volontà più generale.

Sul piano economico una simile sollecitazione era tutt’altro che ingiustificata. Negli incontri “paralleli” con le forze sociali, sono emerse le mille richieste di intervento. Segno di quel malessere profondo che contrassegna la società italiana, in un orizzonte che non mostra sostanziali segni di cambiamento. Preannuncio di un avvitamento sempre più difficile da gestire. Bisogni illimitati, si potrebbe dire, con piglio accademico, e scarse risorse per soddisfarli. Il nodo centrale dell’economia politica. Un po’ la filosofia di Via XX Settembre, nel segno di un’ortodossia che tende a riprodursi.

Lo si è visto chiaramente con Pier Carlo Padoan (il “sentiero stretto”, com’era solito ripetere), lo si avverte oggi nelle mille prudenze di Giovanni Tria. Non a caso accademici entrambi. Ma non fu così con Vittorio Grilli, uomo di mercato, chiamato ad occupare i gradini più alti di quel grande quadrilatero, che fu commissionato da Quintino Sella. La politica economica del 2011 fu indubbiamente deflazionistica. Una stretta che, purtroppo, fece male, ma era in qualche modo giustificata dalla dinamica degli spread e dal deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. La cattiva gestione degli anni precedenti era stato un narcotico potente, che aveva aggravato i mali cronici dell’economia italiana. Ma già nel 2012 le cose erano cambiate.

Alla fine dell’anno gli spread erano calati ed il deficit della bilancia dei pagamenti interamente riassorbito. Si poteva pertanto pensare ad un possibile rilancio. La bozza di legge finanziaria, presentata in Parlamento, alla fine dell’anno, prevedeva una riduzione di 2 punti percentuali delle aliquote Irpef. Non era molto, ma considerata la situazione finanziaria, un atto di coraggio. Visto che il deficit di bilancio era abbondantemente superiore al 3 per cento. Nonostante il dato contabile negativo, si ritenne necessario dare un segnale di speranza. Che, purtroppo, fu vanificato nella successiva discussione parlamentare. Quelle risorse furono depredate, per essere utilizzate in tante piccole “mance”, in vista delle imminenti elezioni.

Fu naturalmente un gravissimo errore, che non si dovrebbe ripetere. E per non farlo è necessario evitare l’eccesso di aspettative. Occorre fare poche cose, ma significative dal punto di vista economico e sociale. E concentrarsi solo su queste. Far capire che il maggior antidoto alla povertà non è la carità pelosa, ma lo sviluppo. E che quindi su questo obiettivo prioritario occorre investire le tante o poche risorse disponibili. Calibrando il loro uso in funzione dei diversi moltiplicatori di reddito, che ne connotano i rispettivi statuti.

Va da sé che finché si resta in un’ottica puramente contabile (il “sentiero stretto”), non si va da nessuna parte. Tanto vale, allora, portare i libri in tribunale, prima dell’inevitabile bancarotta. Il che non significa, ovviamente, “licenza di spesa”. Semmai il contrario: grande rigore nell’uso delle risorse, da destinare ad obiettivi certi e verificabili. Ecco il confronto vero e non elusivo con l’Europa.

È realistica una simile prospettiva? Più o meno come lo era il quantitative easing di Mario Draghi, rispetto all’ortodossia di Jean Claude Trichet. Le risorse, sia quella pubbliche che quelle private, non sono create dall’Erario, con la congerie di tasse e di imposte, ma dall’economia reale. Se questa riprende, c’è spazio per tutto. Se ristagna è l’intero castello burocratico-legislativo a venire giù. Un concetto che non è difficile da capire. Sempre che non vi siano di mezzo altre cose inconfessabili, com quel coraggio che “uno non se lo può dare”. Diceva Don Abbondio.

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