“Se penso di farcela? Abbastanza spesso ce l’ho fatta, io… E questa volta a farcela sarà il governo”.
Con queste parole il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha commentato qualche giorno fa la difficoltà di condurre in porto la riforma fiscale con una legge delega da approvarsi entro il 31 luglio. E le improvvide uscite di Enrico Letta sull’imposta di successione non gli faciliteranno certo il lavoro.
In effetti, Draghi ha davanti un compito arduo, non foss’altro per la impressionante mole di lavoro che è davanti al suo governo ed al Parlamento: riforme orizzontali (pubblica amministrazione e sistema giudiziario), riforme abilitanti (semplificazione e promozione della concorrenza), riforme settoriali e quelle di accompagnamento (fisco e ammortizzatori sociali). Da eseguirsi con decreti legge, per gli aspetti più urgenti, leggi delega (del Parlamento al Governo) e decreti legislativi a cura del Governo. Una onda d’urto di ben 53 provvedimenti legislativi attende il Parlamento secondo un calendario prefissato che parte da maggio ed andrà anche oltre il termine della legislatura a marzo 2023.
L’esecuzione di quelle riforme, nei tempi prefissati, è condizione essenziale per ricevere i pagamenti semestrali del Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (RRF), che costituisce la gran parte del Next Generation UE.
Per riuscire a stare nei tempi, le parole d’ordine sono due: semplificare ed accelerare. Ed a questo scopo, il decreto approvato dal consiglio dei ministri di venerdì 28 è solo il primo, ma esauriente assaggio, di cosa ci attende ed è anche una palmare dimostrazione di chi tira le fila di tutto il gioco: la Commissione.
Il processo di potatura normativa è imponente. Si parte dalla semplificazione in materia di contratti pubblici, da attuarsi con legge delega entro il 2021 e decreti delegati entro 9 mesi successivi. Ma le prime misure urgenti sono da attuarsi con decreto legge che si propone di modificare il famigerato codice degli appalti consentendo l’aggiudicazione al massimo ribasso ed eliminando i vincoli al subappalto. E su questo la CGIL ha parlato subito senza mezzi termini di “rottura della pace sociale” e “ritorno alla giungla dei cantieri degli anni ‘50”. A ciò si aggiungono provvedimenti di semplificazione in materia ambientale, con l’introduzione di una speciale “VIA” statale. Stessa solfa in materia di edilizia ed urbanistica: è stata semplificata la modalità di attuazione del superbonus 110%.
Si sta manifestando in tutta la sua nitidezza il dazio più grande che l’Italia dovrà pagare per vedersi finanziato il piano di investimenti pubblici: la pedissequa obbedienza ad un calendario di interventi legislativi di varia natura, il cui contenuto è sostanzialmente predefinito in circa 40 pagine del Recovery Plan inviato a Bruxelles il 30 aprile.
Uno dei pilastri è proprio quello della semplificazione amministrativa. È infatti di tutta evidenza che spendere circa 240 miliardi fino al 2026 (tra Next Generation e Fondo Complementare Nazionale) è un’impresa praticamente impossibile con l’attuale dotazione strutturale della PA in termini di mezzi e uomini e con l’attuale apparato normativo al loro servizio.
Se si considera che al 28 febbraio 2021, i 50 miliardi di fondi strutturali (di cui 16 di cofinanziamento nazionale) della programmazione 2014-2020 risultano impegnati per il 77% e spesi per il 47%, si comprende che questo non è un ritmo di spesa compatibile con quello previsto dal Next Generation UE.
Ed allora da Bruxelles chiedono di predisporre in primis lo strumento che dovrebbe sgombrare il campo dai tanti controlli e passaggi procedurali che sono presidio contro corruzione, sprechi, malversazioni e che tutelano la sicurezza sul lavoro.
Non saremo certo noi a difendere la giungla normativa che rallenta gli investimenti pubblici e l’iniziativa privata, ma bisogna ammettere che il feroce disboscamento di regole e procedure e l’accorciamento perentorio dei tempi di lavorazione dei progetti e delle autorizzazioni comporta una diminuzione della capacità di controllo ed il correlato aumento del rischio di corruzione ed infiltrazioni mafiose.
È proprio la natura eccezionale di tali interventi di semplificazione a destare perplessità. Delle due, l’una: se si ritiene, quasi sempre a ragione, che i processi autorizzativi degli investimenti pubblici (ed anche privati) siano farraginosi, lenti e soffrano di duplicazioni, allora tali processi devono essere strutturalmente modificati. Non solo perché ce lo chiede l’Europa e gli investimenti sono inclusi nel PNRR. Se, viceversa, si ritiene che certe norme siano un presidio insostituibile a tutela della sicurezza dei lavori e delle finanze pubbliche e contro la corruzione, allora eliminarle o sospenderle momentaneamente, potrebbe creare più problemi di quanti non intenda risolverne.
Invece gli interventi strutturali sono modesti e prevale la logica dell’eccezionalità. Norme a tempo, poteri sostitutivi eccezionali, commissariamenti ad acta.
Così si finisce tra Scilla e Cariddi. Dobbiamo correre altrimenti non riceviamo i pagamenti, ma per correre dobbiamo semplificare ed allora ci esponiamo al rischio di perdere i pagamenti per fenomeni corruttivi o di semplice mala gestio.
È del 16 maggio un articolo del quotidiano francese “Le Figaro” in cui si afferma che “in Italia le mafie hanno già mosso le loro pedine, prendendo il controllo di aziende indebolite dalla crisi, per appropriarsi dei sussidi destinati al Paese”. Tuttavia, nel PNRR il Governo sostiene che “la semplificazione normativa è in via generale un rimedio efficace per evitare la moltiplicazione di fenomeni corruttivi”.
Temiamo che a Bruxelles non la pensino alla stessa maniera. Infatti OLAF (ufficio europeo per la lotta antifrode) ed EPPO (procura europea che dal 1 giugno avrà il compito di combattere le frodi ai danni delle finanze dell’UE) sono già in stato di massima allerta ed il recente Regolamento sulla protezione del bilancio UE è una mannaia affilatissima nelle loro mani.
Allo stesso modo, quando leggiamo nel PNRR che “il settore dell’esecuzione forzata merita un’attenzione particolare in ragione della centralità della realizzazione coattiva del credito ai fini della competitività del sistema paese”, temiamo che tale riforma potrebbe solo migliorare i conti di chi comprerà a prezzo di saldo le decine di miliardi di sofferenze bancarie pronte a riversarsi sul mercato dopo una recessione epocale.
Anche in questo caso, non si vuole negare che accorciare i tempi della giustizia civile e deflazionare il contenzioso siano un bene pubblico desiderabile, ma desta non poche perplessità questa enfasi sulla “tutela del creditore”, proprio quando si sta avvicinando una stagione di inevitabile crescita delle sofferenze bancarie. Tutelare il debitore non è anch’esso un bene pubblico? O si desidera avere aste fallimentari piene di venditori, con conseguente crollo dei valori immobiliari?
L’ultima volta che abbiamo fatto le riforme “perché ce lo chiede l’Europa” non è finita benissimo e siamo sprofondati in quasi tre anni di recessione.
Speriamo che Mario Draghi se ne ricordi.