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Perché critico l’ideona fiscale di Enrico Letta

Sulla proposta di rivedere le regole fiscali sulla successione si può discutere. Ma lo si può fare prescindendo da quella riforma di carattere più generale che fa parte degli impegni governativi? Il commento di Gianfranco Polillo

Enrico Letta deve essere rimasto folgorato sulla via de Il Riformista. Si deve alla penna di Filippo Porta una completa rivalutazione della figura di un poeta come Giambattista Marino, considerato uno dei massimi esponenti del barocco italiano. Autore del celebre endecasillabo “è del poeta il fin la meraviglia” per anni oggetto di una condanna assoluta. Quasi a teorizzare una vacuità che, invece, secondo l’autore ricordato, tale non era.

Ed in effetti la “meraviglia” non si è fatta attendere. Prima lo ius soli, quindi l’esaltazione di genere, nella scelta dei vertici dei gruppi parlamentari. Nel momento in cui i portabandiera alle Olimpiadi di Tokyo, com’è giusto che sia, sono un uomo ed una donna, come Elia Viviana o Jessica Rossi. Ed ora l’idea di aumentare l’imposta sulle successioni per offrire un cadeau ai ragazzi.

“Su @7Corriere – ha scritto in un tweet – lancio proposta di #dote per i #diciottenni. Per la generazione più in crisi un aiuto concreto per studi, lavoro, casa. Per essere seri va finanziata non a debito (lo ripagherebbero loro) ma chiedendo all’1% più ricco del paese di pagarla con la tassa di successione”.

La risposta del presidente del Consiglio, Mario Draghi, non si è fatta attendere. Non è questo il tempo di prendere dagli italiani, ma di dare. Almeno fin quando la recessione che, in Italia, si trascina, seppur con alti e bassi dal 2011, non sarà alle nostre spalle.

Basterebbe questo, per chiudere la questione. Ma purtroppo c’è di più. E quel di più coincide con il richiamo della foresta. Una sorta di maledizione che spesso colpisce i leader del Pd. Non tutti per la verità, ma in questo caso la sindrome è evidente. Marca il passaggio da una posizione riformista, qual era quella dell‘ultimo Letta politico, antecedente il suo trasferimento a Parigi, ad una non tanto massimalista. Quanto disancorata da qualsiasi elemento di realtà. Caratteristiche spesso presenti soprattutto nel partito romano.

Ovviamente sulla proposta di rivedere le regole fiscali sulla successione si può discutere. Ma lo si può fare prescindendo da quella riforma di carattere più generale che fa parte degli impegni governativi? Il fisco italiano non è già abbastanza complicato per aggiungervi ulteriori complicazioni? E poi in che cosa consisterebbe la proposta? Una tassa di scopo: togliere ai ricchi per dare ai giovani. Una tipologia che potrebbe avere una sua logica, anzi forse c’è l’ha certamente, ma in un quadro di coerenze complessive che escludono proposte estemporanee.

Ma al di là del merito specifico, esiste un problema di carattere più generale che dovrebbe essere tenuto presente da chi, per lungo tempo, è stato uno dei massimi dirigenti di Arel: il centro di ricerche fondato da Nino Andreatta. Nei cui annali dovrebbe esserci traccia di quei fondamenti della società italiana dai quali non dovrebbe essere possibile prescindere. Secondo gli elementi della banca dati di Via Nazionale, la pressione fiscale in Italia, nel 2019, ha supera di 1,2 punti di Pil quella dell’Eurozona: 42,4 per cento, contro il 41,2. Quando Draghi sottolinea la necessità di “dare” ha in mente, da un lato questo parametro, dall’altro il letargo italiano, nei confronti di tutti gli altri Paesi, sulla via dello sviluppo.

Considerazioni economicistiche si potrebbe sostenere. Ogni assistenzialista che si rispetti sgranerebbe la giaculatoria delle ineguaglianze e i dati relativi alla povertà assoluta e relativa. Valori raccapriccianti, va subito aggiunto, se non fossero il quotidiano companatico di chi non riesce a scoprire le cause originarie, che ne sono alla base. Ed allora, anche in questo caso, un po’ di comparato può risultare salutare. I dati sono sempre quelli della Banca d’Italia e riguardano la spesa pubblica italiana.

Al netto degli interessi, essa è più o meno uguale a quella degli altri Paesi dell’Eurozona. Le difficoltà relative nascono da due distinti fattori. La spesa per interessi, a causa dell’alto debito pubblico, è all’incirca il doppio di quella dell’Eurozona, una volta esclusa l’Italia. Dalla nascita dell’euro questa differenza è stata di circa 2 punti di Pil, che hanno reso più difficile far quadrare il cerchio e mantenere il deficit di bilancio all’interno dei parametri del Fiscal Compact.

Ma il dato ben più clamoroso è quello relativo al peso della spesa sociale, fatta di pensioni, assistenza, sussidi, semplice redistribuzione del reddito e via dicendo. Dall’inizio del Terzo millennio, al 2019 essa è aumentata di 5 punti di Pil. All’inizio era di qualche decimale inferiore alla media dell’Eurozona. Essendosi attestata su un valore pari al 15,4 per cento del Pil. A distanza di vent’anni, invece, ha raggiunto, la punta del 20,2 per cento, contro una media dell’Eurozona del 16,1 per cento. Quindi oltre 4 punti in più rispetto agli altri.

Si può allora sostenere che il welfare italiano rispetto a quello francese o tedesco, non parliamo di quello inglese o quello americano, sia meno generoso? Si può continuare a chiedere ulteriori risorse da distribuire, considerando il valore della pressione fiscale, appena ricordato? Certo che sì. Ma questa è solo cattiva ideologia, che non può ripagare. Ma si potrebbe replicare: al di là dei numeri, le sofferenze esistono, il malessere è palpabile, gli squilibri sono acclarati. Ovvio: ma non è questo il punto. La verità è che le semplici politiche di redistribuzione del reddito non risolvono il problema. Ciò che occorre è uno sviluppo molto più robusto di quello degli anni passati. Sempre che non si torni indietro: per considerare il socialismo, contro le esortazioni di Deng Xiaoping, il padre della Cina moderna, semplice amministrazione della miseria.

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