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Come cambieranno le regole Ue sul debito?

Cosa dice il rapporto “La riforma delle regole fiscali Ue: se non ora, quando?” di Intesa Sanpaolo sul futuro economico italiano. L'analisi di Giuseppe Liturri

 

A poche ore dall’ampiamente prevista conferma di Emmanuel Macron alla guida della Republique – anziché attardarsi sull’indigeribile melassa che trasuda dai media esultanti per la vittoria del bene sul male – è il momento di capire i lavori che sono in corso nel cantiere della riforma delle regole di bilancio che saranno decisive per il futuro del nostro Paese.

A questo scopo ci aiuta un ottimo lavoro del centro studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, dal titolo “La riforma delle regole fiscali UE: se non ora, quando?”. Si tratta di un dossier su cui la presidenza di turno francese aveva riposto grandi speranze, sperando di farne un risultato chiave del semestre che si chiuderà a giugno. Poi è arrivato il rallentamento congiunturale di fine 2021, seguito dalla guerra in Ucraina ed è ormai altamente probabile che il cantiere resterà aperto almeno per i prossimi 12 mesi. Con la speranza di applicare le nuove regole dal 2024, mentre per il 2023 dovrebbe essere ancora operante la clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità.

Gli economisti di Intesa Sanpaolo hanno fatto un esercizio interessante. Hanno passato in rassegna le diverse proposte di riforma avanzate negli ultimi mesi da diversi centri ricerche e think tank europei ed hanno individuato un terreno comune nella proposta di una regola sulla crescita della spesa pubblica nominale.

E già su questo punto – nell’evidenziare i pregi ed i difetti di questa nuova regola – il documento ci consegna una verità interessante: finora ci siamo fatti guidare (è un eufemismo) da regole che avevano solo difetti.

Il Patto di Stabilità, in vigore dal 2012-2013 nella sua versione riformata, era pro-ciclico (cioè imponeva tagli durante una recessione, peggiorando la malattia che si proponeva di curare), complesso nell’applicazione, basato su numeri non osservabili ma solo stimabili (come l’output gap ed il deficit strutturale), poco trasparente ed ha depresso gli investimenti.

Peccato che questo sistema dal 2012 al 2019 abbia creato danni enormi all’Italia, costretta ad arrancare a ritmi di crescita asfittici, senza che nessuno chiederà mai scusa. Ma guardiamo al futuro.

La nuova regola dovrebbe prevedere che la crescita della spesa pubblica nominale dovrebbe essere consentita in relazione a tre variabili:

  • Il tasso di crescita del PIL potenziale
  • L’inflazione attesa
  • La velocità di riduzione del debito pubblico eccedente il livello obiettivo, che agirebbe come freno.

Ed è proprio quest’ultimo parametro la chiave di volta del tutto. Gli economisti non nascondono che la nuova regola “non annullerebbe la necessità di un significativo sforzo di consolidamento per i Paesi ad alto debito” e che “il percorso di consolidamento richiesto potrebbe risultare persino più stringente di quello implicito nelle norme attuali sul debito del Patto di Stabilità e Crescita”. A tal fine risulteranno “decisivi parametri e velocità di aggiustamento”.

In effetti è vero: potremmo liberarci di molti dei difetti delle regole attuali e considerando che la spesa pubblica dovrebbe essere assunta al netto di (alcune) spese per investimenti e al netto dei cosiddetti stabilizzatori automatici (ad esempio, la cassa integrazione), avremmo quindi una minore pro-ciclicità.

È interessante l’esito della simulazione sui conti pubblici italiani derivante dall’applicazione di tale regola. Sicuramente nei prossimi anni avremmo uno spazio di manovrabilità fiscale superiore a quello che avremmo con le vecchie regole. Ma il problema del rientro del debito viene solo spostato avanti nel tempo, e riproposto anche con maggiore durezza.

E finiremmo dalla padella alla brace, perché “un limite ai consumi pubblici troppo stringente potrebbe risultare controproducente, soprattutto nel caso in cui dovesse riflettersi su componenti di spesa corrente come la sanità e l’educazione”, concludono gli economisti.

Ma anche su questa piattaforma negoziale, il timore espresso dallo studio è che “il raggiungimento di un accordo non appare scontato e, nel caso in cui le divergenze tra Paesi dovessero rivelarsi insanabili, si potrebbe assistere ad una conferma delle regole esistenti che nel passato hanno comunque permesso un certo grado di flessibilità”.

Alla luce di tali conclusioni dello studio, appare così molto più chiaro l’approccio molto prudente utilizzato da Mario Draghi e Daniele Franco nel disegnare il sentiero dell’evoluzione della finanza pubblica fino al 2025. I numeri prospettati sono infatti pienamente conformi alle indicazioni del Patto di Stabilità, come se non fosse affatto sospeso. Viene infatti rispettata la regola sulla crescita della spesa pubblica – che c’è già e si vuole riformare per il futuro – e viene rispettato l’obbligo di avvicinamento all’obiettivo di medio termine in misura di almeno un 0,5% di PIL all’anno.

Insomma, c’è ben poco da essere soddisfatti, anche se si tratta di un avanzamento apprezzabile. Fino a quando il debito pubblico sarà il demonio da ridurre verso obiettivi disancorati dalla realtà e la crescita e l’occupazione saranno una conseguenza eventuale, ci saranno solo problemi per l’Italia.

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