Non si può non provare una naturale simpatia per il vice ministro dell’Economia Maurizio Di Leo che, su sollecitazione della Corte dei Conti, ha riattivato con un atto dovuto il “redditometro”, lo strumento di accertamento sintetico introdotto nel 1973 e sospeso nel 2018.
È ben vero che il consiglio dei Ministri ha provveduto subito dopo a “disapplicarlo” in seguito alle proteste dei partiti di maggioranza (forse preoccupati di un danno elettorale presunto in viste delle elezioni europee, tant’è che alcuni hanno ribadito addirittura la necessità di rottamare il redditometro), ma almeno questo ha avuto il merito di porre al centro dell’attenzione l’evasione fiscale, che rimane una delle principali criticità del bilancio dello Stato.
Il Presidente del Consiglio ha comunicato che sarà messo a punto un nuovo accertamento sintetico che provvidenzialmente sarà definito “2.0”, dopo un incontro collegiale di tutte le forze di maggioranza che individueranno una posizione comune. L’obiettivo del Governo si conferma quello di dare la caccia ai finti nullatenenti che girano con auto di lusso o hanno un tenore di vita incompatibile con quanto dichiarato al Fisco e di disciplinare nello stesso tempo gli spazi di discrezionalità dell’amministrazione finanziaria al fine di eliminarne possibili abusi.
Il ragionamento ci può stare, è vero che oggi questo strumento era un’arma spuntata, purtuttavia fa un po’ sorridere e pone qualche serio interrogativo il rifiuto quasi ideologico del termine redditometro, sostituito pudicamente dall’espressione, giuridicamente ineccepibile ma incomprensibile a molti, di “accertamento sintetico 2.0”. Si chiami pure come si vuole, ma qualche voce di riferimento ci dovrà pur essere per determinare il tenore di vita del contribuente. Togliamo pure dai parametri attuali le spese per il barbiere e gli istituti di bellezza, i centri benessere, le borse e le valige; togliamo i medicinali e le spese mediche o qualcos’altro, ma rimangono tante altre voci che segnalano il tenore di vita del contribuente al quale peraltro deve rimanere il pieno diritto a dimostrare che le proprie spese sono finanziate non da redditi ma da legittimi risparmi.
E qual è la soglia di scostamento tra reddito dichiarato e reddito sinteticamente accertato per fare scattare la contestazione fiscale? Il 40%? Il 50%? Il 100%? Insomma, se si vuole colpire davvero l’evasione un “redditometro” è necessario, anche se non sufficiente. Sarebbe altrettanto importare occuparsi di dare una formazione specifica adeguata per i funzionari del Fisco che dovranno assumersi il compito di tenere un rapporto costruttivo e trasparente con i cittadini.
Ma c’è un’altra questione che da tempi antichi accompagna il dibattito sulle imposte. È la parola “grande”, il magico aggettivo che intende tranquillizzare i contribuenti. Bisogna colpire la “grande” evasione, le “grandi” fortune, le “grandi” eredità. La formula è stata storicamente adottata dalla sinistra politica e dal sindacato, ma anche il Presidente Meloni non si è sottratta al rito e ha fatto l’esempio classico del disoccupato che va a spasso con la Ferrari. Questo è un discorso antico che si ritrova agli albori della Repubblica e non deve sorprendere. Sull’Avanti! del 2 luglio 1947 si legge un titolo a cinque colonne che richiama l’intervento del Senatore del Partito d’Azione Leo Valiani che denuncia come l’Imposta Straordinaria sul Patrimonio (allora in discussione) “minaccia piccoli e medi proprietari che non hanno realizzato profitti di congiuntura e specialmente le proprietà private immobiliari”.
È del tutto ovvio che, anche in virtù del principio di progressività del sistema fiscale siano necessari trattamenti differenziati tra valori assoluti differenti, ma il problema sta nell’uso generico del termine “grande” che rischia di vanificare l’effetto concreto di ogni provvedimento. Ciò vale ancor di più oggi nel momento in cui il Governo deve fronteggiare un debito pubblico enorme in presenza di una crescita modesta.
Per ragioni evidenti non si risaneranno le finanze dello Stato se si colpiranno solo i “grandi” evasori, termine che rimarrà vago e ha solo un valore letterale. Oggi l’evasione è un fenomeno gravemente diffuso, in particolare tra alcune categorie di contribuenti, e deve fare i conti anche con il lavoro nero che non è solo la conseguenza della difficoltà di emersione delle attività produttive di alcune aree del mezzogiorno. Senza contare il fatto che i “grandi” contribuenti dispongono di strumenti legali che li possono, almeno in parte, proteggere fiscalmente senza violare la legge. Dietro all’uso attento degli aggettivi si nasconde purtroppo un’amara verità, quella di un paese ormai prigioniero di un nugolo di corporativismi di ogni specie e di ogni dimensione. Questa è la vera sfida per la politica e per le forze sociali e lo strumento di un “redditometro” ne è parte importante, a condizione che sia equo, trasparente ed efficace.
Colpisce il fatto che l’opposizione e le forze sociali non abbiano finora approfittato di questo infortunio del Governo per incalzarlo e sfidarlo a misurarsi su proposte concrete. Negli anni ’80 del secolo scorso fu un sindacato, la Uil, ad inaugurare una stagione di iniziative e di proposte in materia fiscale. La parola d’ordine era: “Io pago il fisco, e tu?”. Forse sarebbe il caso di ricominciare.