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Agricoltura

Vi racconto la strana storia dei kiwi in Italia

In questi giorni di protesta degli agricoltori, la storia di come è nata e soprattutto come si è evoluta fino a oggi la monocoltura di kiwi nei campi intorno a Latina può aiutarci a capire meglio come si è trasformata l'agricoltura italiana. L'articolo di Fabrizio Tesseri, estratto dalla newsletter Appunti di Stefano Feltri

Buongiorno a tutte e tutti,

in questi giorni di proteste e di trattori si parla tanto di agricoltura, ma quasi soltanto per slogan o in aggregato, attraverso le statistiche di settore.

La verità è che in una società che è perfino post-industriale, di come funzioni davvero il complesso sistema della produzione alimentare sappiamo tutti poco.

Ogni semplificazione tipo “i contadini devono essere aiutati perché ci sfamano” trascura che il cibo non passa dal campo al piatto, ma segue itinerari tortuosi, all’apparenza assurdi, costosi, ma per qualcuno remunerativi.

Nel pezzo – a mio parere particolarmente bello – che trovate qui sotto Fabrizio Tesseri racconta una storia che conosce bene, quella del kiwi nei campi intorno a Latina, in particolare intorno alla sua Cisterna.

Fabrizio è un importante funzionario pubblico, ma qui scrive in quanto cittadino di Cisterna che partecipa alle evoluzioni del suo territorio e alle loro ricadute sociali.

Basterebbe questo pezzo a smontare molti degli stereotipi che si sentono in questi giorni, dagli agricoltori in protesta ai salotti televisivi.

Come è potuto succedere che, a poche decine di minuti da Roma, si sia sviluppata una specie di monocoltura fondata su un frutto non certo radicato nella tradizione alimentare italiana? Perché intorno a Latina si coltivano soltanto kiwi? E che conseguenze ha questo sull’ambiente?

Qui le risposte, che rendono il dibattito intorno ai trattori più complesso ma anche più affascinante.

Buona lettura,

Stefano Feltri

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Il primo che piantò i kiwi qui lo conoscono tutti, anche se come sempre la primogenitura di un’idea è ancora dibattuta nei bar dei borghi. All’epoca, primissimi anni Ottanta, tutti chiamavano quel frutto peloso Actinidia.

Lo mangiavamo stramaturo, tagliandolo a metà e svuotandolo con il cucchiaino. Quello che realizzò il primo ettaro a kiwi “fece i miliardi” e con lui quelli che gli andarono dietro.

Da ragazzino era normale imbattersi in discussioni di adulti tra una briscola e un tressette riguardo le combinazioni per una migliore impollinazione: 1 maschio e 5 femmine; 2 maschi ogni 7 femmine…

Diversi operai della Goodyear staccavano dal turno e andavano a coltivare i kiwi sul loro pezzo di terra più o meno grande, qualcuno si licenziava, molti degli altri invece sono morti di cancro preso al Banbury o di asbestosi per l’amianto dei giganteschi capannoni.

Una terra, questa, dove cresceva di tutto, tanto che, con le sovvenzioni della Cassa per il Mezzogiorno, la Findus costruì qui il suo più grande impianto in Italia.

Tutto intorno le terre venivano coltivate con ortaggi di ogni tipo per le lavorazioni della Findus: piselli, spinaci, bietole. Qualsiasi cosa, perché qui “quello che pianti cresce”.

Mia madre ha lavorato anche alla Findus, dopo la campagna, come tante donne assunte a tempo indeterminato o, più spesso, come stagionali.

Poi qualcosa iniziò a cambiare: gli ortaggi, come il merluzzo del resto, arrivavano a minor costo con i camion da paesi lontani e ripartivano in grandi tir frigo.

E allora la terra rendeva agli agricoltori sempre meno e gli operai delle industrie della Cassa per il Mezzogiorno compravano i pisellini surgelati arrivati da vattelappesca e il mercato del mercoledì e del sabato era solo per gli anziani.

C’è ancora la Findus, con meno operai e di proprietà di un Fondo di Private Equity, mentre la Goodyear ha chiuso una ventina di anni fa.

Poi ci sono industrie farmaceutiche e metalmeccaniche, ma resta la vocazione agricola di quella che si onora di essere la patria dei Butteri.

Solo che è cambiato tutto, intorno. Ora ci sono infiniti tendoni di kiwi coperti da reti antigrandine, che visti dall’alto dei Lepini formano una scacchiera innaturale, colorata e irregolare.

In pochi anni, il kiwi divenne la monocoltura di questa terra, trasformando il nord della Pianura Pontina nel secondo produttore al mondo di un frutto asprigno e carico di vitamina “c”.

All’epoca c’era solo la varietà verde, poi vennero le varietà colorate e più zuccherine. Un paio di cooperative tra produttori fallirono presto, per i soliti appetiti politici e un di più di avidità di gente che già tirava fuori l’oro da ogni ettaro di terra.

E così ben presto il raccolto ha iniziato a essere acquistato da grandi società frutticole del nord Italia, direttamente sul campo, da agenti che passano per i campi durante l’estate e chiudono i contratti con ogni produttore e, naturalmente, fanno loro il prezzo.

Poi, a novembre arrivano i tir a caricare direttamente dai campi o nei pochi centri di raccolta.

Intanto, il prezzo scende ogni anno più in basso, perché la produzione cresce a dismisura, sia qui che in altre zone come il Garda, e perché ora il kiwi, tutto uguale, stesso calibro, stesso sapore “educato” e con poca peluria sulla buccia, si mette in piccoli contenitori di cartone, viene incellofanato e marchiato per essere venduto nella grande distribuzione.

E il prezzo di vendita del produttore lo decide a ritroso la grande distribuzione organizzata e, se non va bene, il frutto può anche restare a marcire sulle piante.

Così, domenica, mentre le notizie delle proteste degli agricoltori riempivano i telegiornali, sono andato al supermercato e ho fatto caso a quelle belle confezioni di un frutto venuto da lontano, trapiantato nella mia terra e diventato il paesaggio ai lati dell’Appia: tutte con il marchio di ortofrutticole emiliane, romagnole, toscane o venete.

Prezzo attraente, ma se penso che magari quel kiwi è cresciuto a pochi metri dal supermercato, è un prezzo decisamente troppo alto se lo rapporto a quanto è stato pagato al produttore che, per raccoglierlo, ha ingaggiato lavoratori, stranieri o italiani, comunque sottopagati. Lavoratori che quella confezione di kiwi non potranno permettersela.

E avete idea di quanto siano bassi i contributi previdenziali in agricoltura? Quanto “nero” ci sia? Con lavoratori che risultano assunti per periodi di tempo limitato e per il resto “prendono la disoccupazione”? Sì, sempre a carico dei contribuenti onesti e del bilancio dell’Inps e dello Stato.

Oggi, sotto gli occhi di chi vuol vedere ci sono gli effetti della monocoltura del kiwi. Una pianta che necessita di grandi quantità di acqua, attraverso impianti di irrigazione a nebulizzazione che d’estate riportano il tasso di umidità al tempo della palude.

Tanta acqua da contribuire all’abbassamento della falda freatica con due conseguenze drammatiche: alcuni pozzi di captazione degli acquedotti più vicini alla costa (comunque parliamo di chilometri) sono stati chiusi, perché la riduzione della falda ha portato negli anni all’infiltrazione dell’acqua salmastra dal mare e sembra che lo stesso abbassamento della portata della falda sia concausa dell’aumentata concentrazione di arsenico nell’acqua di falda che, dopo decenni in deroga ai limiti di legge infischiandosene della salute umana, viene ora diluita con quella purissima della Sorgente di Ninfa.

Poi, negli ultimi anni, succede quello che forse era logico aspettarsi, quando fai diventare una coltura originaria del sud est asiatico quella prevalente in un angolo di mediterraneo: compare un agente patogeno sconosciuto che inizia a distruggere ettari e ettari di kiwi.

E ora gli agricoltori chiedono indennizzi, sussidi, investimenti pubblici per trovare la cura alla batteriosi del kiwi.

Oggi, probabilmente, qualcuno di quei produttori di kiwi è su un trattore alla periferia di Roma, o comunque solidarizza con chi protesta e chiede sussidi, detassazioni, decontribuzioni.

Io mi chiedo quanto costi davvero quel kiwi bello impacchettato al supermercato, se si sommano anche i costi sociali e ambientali, il peso sull’erario dei tanti sussidi, delle pensioni integrate al minimo di chi ha raccolto a novembre o ha “tirato i tralci” a febbraio.

Gli economisti le chiamano esternalità negative, ma per i kiwi, come per molto altro, in agricoltura e non solo, mi viene ormai più semplice pensarle come le degenerazioni di un sistema economico che estrae fino all’ultima goccia di valore e ne redistribuisce sempre meno e che, come i kiwi, sembra destinato a veder bruciate le proprie radici lasciando aridità, fame e rabbia.

(Estratto dalla newsletter Appunti di Stefano Feltri)

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