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Pnrr: opportunità e incognite per l’Italia

Perché urge una semplificazione per il successo del Pnrr. L'analisi del professor Francesco Vatalaro, ordinario di Telecomunicazioni presso il Dipartimento di Ingegneria dell'Impresa "Mario Lucertini" dell'Università di Roma Tor Vergata

 

Vediamo quali sono opportunità e rischi che potranno interessare il nostro Paese che, come sappiamo, si affida al proprio Piano Nazionale di Ripresa  e Resilienza (PNRR) non solo per recuperare rispetto all’arretramento economico generato nel 2020 dalla pandemia ma persino per ridurre gli squilibri preesistenti così da guadagnare posizioni nel ranking europeo.[1] La stessa Commissione europea confida che, in virtù di questo piano, l’Italia possa assestare la propria economia che è la terza in Europa e a cui molti affidano la responsabilità della stabilità dell’intera UE.

Iniziamo con un breve sommario delle caratteristiche del piano italiano per poi esaminare alcune delle problematiche connesse.

LA STRUTTURA DEL PNRR

Il PNRR è il documento che il Governo italiano ha trasmesso alla Commissione europea il 30 aprile 2021 per illustrare come intende investire i fondi che giungeranno nell’ambito dell’elemento del NGEU detto “Recovery and Resilience Facility” (RRF). Il Piano italiano, approntato seguendo le linee guida della Commissione europea, presenta un “pacchetto completo e coerente di riforme e investimenti”[2] e si articola su tre ‘assi’: digitalizzazione e innovazione; transizione ecologica; inclusione sociale. Il PNRR raggruppa i progetti di investimento in 16 ‘componenti’ (una sorta di macro-progetti) raggruppate in sei ‘missioni’ (tabella in Figura 4).

Il Governo ha avanzato richiesta alla UE del massimo consentito delle risorse RRF a disposizione dell’Italia, pari a 191,5 miliardi di Euro (28,5%), di cui 122,6 miliardi in prestiti e 68,9 miliardi in sovvenzioni. A queste risorse si aggiungono 13 miliardi di Euro del programma ReactEU (il meccanismo ponte tra l’attuale politica di coesione e la nuova programmazione con circa 8,5 miliardi destinati al Mezzogiorno) e, infine, 30,62 miliardi di Euro del “Piano nazionale per gli investimenti complementari” da integrarsi con gli interventi europei. Pertanto l’inviluppo totale delle risorse mobilitate nel periodo 2021-26 ammonta a circa 235,12 miliardi di Euro.

Secondo le stime del MEF, attraverso le riforme e gli investimenti previsti dal piano, il tasso di crescita dell’economia italiana potrà aumentare di 0,8 punti percentuali – di cui 0,5 per effetto della maggiore spesa e 0,3 per effetto delle riforme – portando a 1,4% il tasso di crescita potenziale nell’anno finale (2026), 0,8% punti in più di quanto stimato in assenza di PNRR. Di conseguenza, l’impatto complessivo sul PIL nominale nel 2026 si stima di 3,6 punti percentuali in termini di scostamento rispetto allo scenario base. Ciò consentirà di ridurre sia il rapporto debito pubblico/PIL sia il tasso di disoccupazione, i due parametri che manifestano le maggiori criticità per l’Italia nelle analisi della Commissione europea.

Secondo quanto stabilito dal Regolamento (UE) 2021/241, una quota di almeno il 37% delle risorse RRF a disposizione dell’Italia deve essere destinata alla transizione verde e una quota di almeno il 20% alla transizione digitale. Nel PNRR gli interventi a ciò destinati sono distribuiti su tutte le sei missioni: quelli per la transizione ecologica sono 78,2 miliardi (40,8%) e quelli per la transizione digitale sono 51,4 miliardi (26,9%). Sempre la tabella fornisce il dettaglio economico per le sei missioni da spendere nell’arco dei sei anni.

ANALISI DEL PIANO ITALIANO

Si conferma che gli investimenti infrastrutturali, quantunque non limitati alla sola missione M3 (ad esempio, sono di carattere infrastrutturale gli investimenti previsti nella seconda componente di M1), sono minoritari rispetto al cumulo delle spese previste. Se si escludono quelle indirizzate a finalità sociali (missione “inclusione e coesione”), gran parte delle spese dovrebbero essere in grado di mobilitare con un robusto moltiplicatore le risorse private oggi dormienti, ma appare deficitaria ogni possibile analisi a priori (che avrebbe dovuto però indirizzare le scelte programmatiche) mirata a spingere in questa direzione. È questa una delle prime serie preoccupazioni che emergono dall’esame del piano. Riprendendo dall’analisi di IBL già citata sopra “gli investimenti sono eterogenei e spesso appaiono più il frutto di azioni da parte di portatori di interessi, che il frutto di un’analisi ragionata sulle esigenze del paese”.

Appare evidente l’effetto di recupero di “progetti nel cassetto”, già citato sopra, con scelte delle destinazioni delle spese cercando a posteriori di eseguire la stima di impatto: l’effetto macroeconomico rischia di essere ben lungi dall’essere ottimizzato. D’altra parte, le determinanti delle scelte appaiono più politiche che economiche. La struttura del piano italiano poi evidenzia un forte ruolo, senz’altro propositivo e in prospettiva attuativo, da parte dei grandi gruppi industriali statali o parastatali. La pesante influenza sulla redazione del piano delle imprese a controllo pubblico, esplicitamente cercata, non solo evidenzia un ruolo marginale di idee e proposte originate dal settore privato (persino delle grandi aziende) ma lascia anche prevedere un deflusso di limitate proporzioni delle risorse mobilitate verso le imprese medie e piccole del Paese, specialmente quelle di giovani.

La mancanza di approfondimento, anche per evidente carenza di tempo, di una programmazione di alto livello degli interventi, oltre che delle condizioni atte a mobilitare le risorse private, emerge da molti esempi di cui è costellato il piano e che si stanno, purtroppo, materializzando nei bandi pubblici.

ALCUNI PRIMI SEGNALI NON PROPRIO CONFORTANTI

L’esempio dei primi bandi pubblici emessi nei giorni scorsi sfortunatamente sembra confermare le preoccupazioni. La loro struttura evidenzia che allo storico livello di burocratizzazione dei bandi italiani, il PNRR aggiunge un ulteriore strato di regole e limitazioni che potranno disincentivare l’adesione da parte di quei soggetti privati che, impegnati attivamente sul mercato, mirano ad operare con alti livelli di efficienza e che ben difficilmente possono permettersi di rimanere intrappolati in complessi schemi ‘bizantini’. Viceversa, la pioggia di denaro pubblico in arrivo potrebbe incentivare soggetti, lontani dalle logiche di mercato e di generazione di valore duraturo, che puntano ad ottenere con il minimo sforzo il contributo pubblico, anche rispettandone tutti i formalismi, senza curarsi però di dare continuità produttiva allo sforzo fatto, in quanto ad essa non realmente finalizzato.

Per comprendere meglio il tipo di difficoltà che ci si avvia ad incontrare potrebbe essere utile qualche esempio.

Un primo bando pubblico è già andato deserto.[3] Si tratta dell’intervento previsto dal Ministero per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale (MITD) per realizzare il collegamento in fibra ottica fra il continente e alcune isole minori che finora non possono essere dotate di banda larga. Le cause che hanno tenuto lontano le imprese private del settore riguardano alcuni severi vincoli: pesanti obblighi di garanzie di fideiussione e penali sui tempi di esecuzione delle opere.

Altri bandi sono stati emessi e scadranno nei prossimi mesi. Ad esempio il Ministero per l’Università e la Ricerca (MUR) ha lanciato due bandi per laboratori di ricerca e innovazione a rete che presentano regole difficili da interpretare e da soddisfare. Specialmente in uno dei due bandi, in cui si desidera una significativa partecipazione di imprese private, la leva economica prevista (51%, di cui almeno 31% in risorse finanziarie) combinata con la pretesa di una visione a 15 anni, potrebbe condurre ad una partecipazione limitata a fronte di un budget disponibile cospicuo (500 milioni di Euro).

Nel complesso appare evidente che la forte burocratizzazione, la congerie di vincoli di ogni tipo e le richieste di cofinanziamento a fronte di condizioni penalizzanti per le imprese private (ad esempio la rinuncia ai diritti di privativa industriale e la piena apertura al mercato delle conoscenze), potranno minare alla base molte componenti del PNRR.

Un’altra categoria di esempi problematici riguarda i meccanismi prescelti per il rispetto delle norme sugli aiuti di Stato. Nel settore della tecnologia 5G, costosa perché richiede una distribuzione capillare di infrastrutture di radio trasmissione, occorre impegnarsi a partire dalle aree più densamente popolate affinché il ritorno dell’investimento possa ragionevolmente concretizzarsi. Ma queste aree sono per loro natura competitive e non si prestano quindi ad interventi pubblici in forme che potrebbero rivelarsi distorcenti di una concorrenza in atto o quanto meno potenziale: sarebbe stato opportuno ipotizzare ambiti e meccanismi di intervento al contempo rispettosi del principio europeo e dei criteri di efficacia dell’investimento. I progetti prescelti in ambito 5G riguardano la copertura delle strade statali o provinciali, dunque a bassissimo traffico dati che, evidentemente rivestono interesse scarso, e lasciano prevedere uno scarso impatto sul PIL.

In questo settore, ossia il 5G, non erano mancate proposte del mercato che miravano a un approccio più efficace, indicando sia ambiti di intervento che meccanismi di sovvenzione capaci di creare un più alto moltiplicatore economico. Ad esempio Ericsson aveva fornito stime dell’impatto moltiplicativo del 5G sul PIL in vari casi d’uso fra cui: hotspot urbani incluso il trasporto pubblico (sette volte), servizi pubblici (sei), fabbrica intelligente (cinque), agricoltura intelligente (cinque)[4].

CONCLUSIONI

È ancora vasta l’approvazione – che a tratti si tramuta in vero e proprio entusiasmo – per il piano europeo NGEU. Se da un punto di vista politico il piano ha rappresentato un’utile svolta, un esame dettagliato delle sue prospettive economiche può generare qualche ragionevole perplessità. Al di là delle apparenze, non si tratta di un piano keynesiano – né tanto meno di un approccio liberale in economia – ma piuttosto di un meccanismo rigido e privo di adattività che centralizza, nel dialogo stretto fra commissione europea e governi, misure spesso incapaci di generare un apprezzabile moltiplicatore macroeconomico e che ben difficilmente potranno coinvolgere in modo capillare i sistemi industriali nazionali, specialmente nella sua versione italiana che prende il nome di PNRR.

È ben nota, poi, la scarsa capacità del Sistema Italia di accedere ai fondi europei. Nel momento in cui veniva lanciato un vasto piano della portata del PNRR, a cui molti affidano speranze di rilancio dell’economia che dovrebbero andare ben al di là del recupero dei danni pur gravi provocati dalla pandemia, la capacità di mobilitare davvero industria e capitali privati avrebbe dovuto essere una priorità e un obiettivo inderogabile. La storica burocratizzazione del sistema pubblico italiano sembra addirittura rafforzata nei primi bandi del PNRR – con una quantità inimmaginabile di regole ex-ante e di verifiche e penalità ex-post – e questo solleva serie preoccupazioni sulla reale efficacia del piano, che si aggiungono al presumibile scarso valore dell’effetto di moltiplicazione delle risorse che saranno effettivamente investite.

Prima che sia tardi, sarebbero auspicabili interventi di semplificazione “per il PNRR”. La sua norma istitutiva[5] prevede all’art. 5 la costituzione presso la Presidenza del Consiglio di una “Unità per la razionalizzazione e il miglioramento della regolazione e Ufficio per la semplificazione” con il compito di “individua[re] gli  ostacoli  all’attuazione corretta e tempestiva delle riforme e degli investimenti previsti nel PNRR derivanti dalle disposizioni normative e dalle rispettive misure attuative e propone rimedi.” È indispensabile che tale Unità, in un’ottica ormai già emergenziale, si attivi senza indugio e che impartisca chiare e immediate disposizione per la semplificazione delle regole per i bandi pubblici, oltre forse ad arrivare a revisionare alcuni dei bandi già pubblicati.

[1] In particolare, si conta di rispondere alle Raccomandazioni specifiche o CSR (Country Specific Recommendations) rivolte all’Italia dal Consiglio dell’Unione europea nel 2019 e nel 2020.

[2] Centri studi di Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, “Schede di lettura: il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, 27 maggio 2021, http://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/DFP28.pdf

[3] Carmine Fotina, “Banda ultralarga, troppi vincoli: va deserta la prima gara del Pnrr”, Sole 24 Ore, 9 gennaio 2022.

[4] Ericsson Italia, “Next Generation Italia, Una proposta di impatto moltiplicativo sul Sistema Paese”, slide, 22 ottobre 2020.

[5] Legge n. 108/2021.

 

(Terza e ultima parte, qui la prima e qui la seconda)

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