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Salario Minimo Europeo

NgEu, ecco fini e limiti per i Pnrr

L'analisi del Prof. Francesco Vatalaro, Ordinario di Telecomunicazioni presso il Dipartimento di Ingegneria dell'Impresa "Mario Lucertini" dell'Università di Roma Tor Vergata

 

Sull’onda del cambio di rotta della UE nella direzione di maggiori livelli di solidarietà e spirito di condivisione fra gli Stati membri, pur sotto la condizione di stabilire l’introduzione di controlli severi sulla spesa e sulle riforme da attuare, si è creato fra i cittadini europei un clima di fiducia e attesa sull’utilità del piano economico avviato dalla Commissione europea. Una recente ricerca di mercato svolta da Deloitte conferma la diffusa fiducia tra gli intervistati nella capacità dei governi di fare un uso efficace dei fondi del NGEU (Figura 3).[1]

Più di otto intervistati su dieci cittadini della UE pensano che il NGEU sia uno strumento strategico e necessario per sostenere la rivitalizzazione sia del loro Paese che della UE nel suo complesso. Sembra dunque evidente che l’adesione al piano straordinario, l’attesa che si è generata e il grado di fiducia medio siano oggi molto alti nel Continente.

Alla domanda se “il NGEU è uno strumento strategico e necessario per sostenere le politiche di recupero e rivitalizzazione del mio Paese”, in particolare, l’87% degli intervistati italiani ha risposto affermativamente, tre punti percentuali oltre la media europea. Inoltre, alla domanda se “il NGEU è uno strumento strategico che assicura un rivitalizzazione di tutta l’Unione europea” l’86% degli intervistati italiani ha risposto di sì, fra i più ottimisti negli Stati membri (quattro punti sopra la media europea).

D’altra parte, il 72% degli italiani risponde affermativamente alla domanda se “il mio Paese sarà in grado di sfruttare efficacemente e monitorare l’impatto economico e il benessere derivante dai progetti NGEU”, scendendo di ben 14 punti rispetto al grado di fiducia sullo strumento in sé e, in questo caso, ponendosi anche al di sotto della media europea del 79%, staccati di sette punti percentuali e fra gli ultimi in classifica. Pertanto, pure nel generale clima di fiducia seguito all’approvazione delle misure economiche, in Italia è presente un certo grado di diffidenza (relativa) sulla capacità del Paese di fare tesoro compiutamente degli investimenti in termini di crescita economica e di benessere sociale.

ANALISI CRITICA DELLO STRUMENTO DI INTERVENTO ADOTTATO

In linea con il generale clima di fiduciosa attesa sullo strumento NGEU (e in particolare sul RRF), prima che si cominci a vederlo effettivamente in opera, si possono solo fare delle valutazioni di carattere generale sui potenziali “pro” e “contro” che necessariamente dovranno essere sottoposti a revisione critica sulla base dei primi risultati.

LE POTENZIALITÀ DA SFRUTTARE

Il programma di finanziamento NGEU rappresenta un cospicuo intervento finanziario: i fondi sono indirizzati a rafforzare tre pilastri cruciali: digitalizzazione, innovazione e sostenibilità. La Commissione europea è confidente che questi tre pilastri rappresentino le fondamenta essenziali per costruire un’Europa prospera e dotata degli strumenti necessari per assicurare una crescita duratura. Il piano dedica attenzione non solo a rivitalizzare la UE ma anche a colmare il divario tra le sue economie nazionali più avanzate e quelle in ritardo. È evidentemente, però, che la capacità di rigenerare le economie dopo la pandemia di COVID-19 non dovrebbe considerarsi disgiuntamente da un attento confronto internazionale, fra grandi blocchi continentali in concorrenza, per stabilire la capacità dell’Europa di confrontarsi nell’arena globale una volta messe in atto le misure di rilancio, ma su questo al momento non si dispone di dati sufficienti.

Alcuni aspetti positivi del piano europeo, almeno sulla carta, sono i seguenti.

Un primo aspetto positivo consiste nella possibilità di lanciare grandi programmi condivisi fra cui quello della promozione della digitalizzazione su scala europea e quello dell’innovazione sostenibile.

La spinta verso una crescente digitalizzazione dovrà investire tutti i settori della società europea: NGEU, il più grande programma di finanziamento mai messo in atto dalla UE, crea un’opportunità unica per portare ovunque crescita e sviluppo. Per come è impostato, il piano mira a conseguire i benefici della digitalizzazione potenzialmente nelle aree e nelle condizioni di maggior disagio (fallimenti di mercato), attraverso strumenti che le persone dovrebbero trovare accessibili ovunque e facili da usare.

È anche da giudicare favorevolmente la spinta verso l’innovazione sostenibile e l’adozione di misure per mitigare gli effetti del cambiamento climatico e dei danni ambientali; tuttavia occorre attuarle con attenzione ad evitare sprechi e pericolose fughe in avanti per non penalizzare l’economia europea nel confronto globale. Piuttosto si potrebbe mirare a trarne vantaggi puntando all’esportazione di soluzioni innovative centrate sulle tecnologie digitali “smart” e a basso consumo pensate per la protezione ambientale e la sostenibilità.

Infine, un altro aspetto favorevole consiste nell’incentivo alla collaborazione tra gli attori chiave della società europea: pubblica amministrazione, università, centri di ricerca, imprese. Un maggiore coordinamento fra questi soggetti sarà importante per assicurare la sostenibilità e stimolare l’innovazione. La velocità dell’innovazione e del cambiamento economico-sociale-culturale dipenderà dalla misura in cui le organizzazioni collaboreranno e si integreranno, attraverso la condivisione delle conoscenze e le iniziative di trasferimento tecnologico al mercato. La condivisione dei dati della pubblica amministrazione e, ove possibile, degli stessi privati è la nuova frontiera che potrà essere raggiunta in virtù di tecnologie quali intelligenza artificiale, big data analytics e internet degli oggetti.

LE PREOCCUPAZIONI LEGATE AL PIANO E I RISCHI DA CONTENERE

Se da una parte sarebbe scorretto, e forse anche ingiustificato, mancare di identificare e apprezzare il balzo realizzato dalla UE – sia in termini di indirizzo politico nuovo e più solidale che nell’approntare per la prima volta un intervento economico di così ampio respiro – dall’altra si possono anche nutrire perplessità sul complesso delle scelte adottate. Come sostiene il Cato Institute,[2] dopo avere esaminato i danni economici prodotti dal COVID-19 negli Stati Uniti: “Le politiche a favore della crescita saranno generalmente necessarie per ricostruire l’economia. Niente riduce la povertà quanto la crescita economica, ed è per questo che le politiche che producono crescita, come tasse più basse e meno regolamentazione, sono i programmi anti-povertà più efficaci.”

Ma questa non è stata l’impostazione data al NGEU che non sembra essere partito dall’esigenza di liberare le energie del sistema produttivo, specialmente oggi che proprio per effetto della pandemia, come abbiamo visto sopra, il risparmio privato è andato alle stelle. Le autorità europee sottolineano il desiderio che il volume delle risorse pubbliche mobilitate possa generare un effetto leva sugli investimenti privati, ma vi sono motivi per ritenere che ciò sarà possibile solo in minima parte, mentre proprio questo avrebbe dovuto essere l’obiettivo da mettere al centro delle discussioni e delle decisioni politiche degli Stati membri.

L’obiettivo poteva ottenersi, in modo più efficace, attraverso forme di incentivazione fiscale e di deregolamentazione e razionalizzazione normativa a livello sia europeo che nazionale:[3] viceversa, si è preferito costruire un piano pluriennale “top-down”, gestito centralmente ed assemblato in fretta e furia, con il rischio che possano essere stati ripresi dagli Stati membri progetti mai avviati prima per ragioni di scarso impatto o dubbia credibilità (per meglio intenderci, “progetti nel cassetto”). A ciò si aggiunge l’aspetto essenziale degli interventi europei che si possono attuare nel rispetto dei Trattati istitutivi della UE, in particolare l’Art. 107 TFEU che vieta gli aiuti di Stato “sotto qualsiasi forma che falsano o minaccino di falsare la concorrenza favorendo talune imprese o la produzione di determinati beni”, salvo deroghe molto circoscritte. Si tratta di un principio, nella sua generale astrattezza, razionale e condivisibile in un regime economico standard ma che, nello specifico di un piano di ripresa dopo una grave pandemia, impone di investire le risorse del NGEU per lo più in condizioni di fallimento di mercato e, dunque, proprio dove un operatore economico virtuoso potrebbe decidere di non cimentarsi neppure godendo dell’agevolazione prevista dal finanziamento pubblico.

C’è anche chi prevede che le aspettative potranno andare deluse per motivi economici anche più generali. Fra costoro, l’Istituto Bruno Leoni (IBL) ha svolto un’analisi condivisibile del piano NGEU che rappresenta “una riproposizione di quella combinazione di keynesismo e di welfare che potremmo definire socialdemocratica e che ha dominato la scena negli anni che vanno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla metà degli anni ’70”.[4]

Più nello specifico sono due gli elementi critici da sottolineare.

Il primo elemento è che “la possibilità di prevedere le conseguenze (…) di decisioni politiche, attualmente rivendicata (almeno implicitamente) dalla teoria della politica economica, sembra essere al di là delle capacità [dei modelli econometrici]”: in altre parole, i comportamenti economici non rispondono in modo prevedibile agli impulsi impartiti dai governi, e perciò “le simulazioni che utilizzano i modelli econometrici non possono, per principio, fornire informazioni utili sulle conseguenze reali di politiche economiche alternative”.[5] È dunque da respingere il ‘keynesismo idraulico’ secondo cui le reazioni degli operatori alle misure di politica economica si possano prevedere meccanicamente, giacché la condotta degli operatori economici dipende dal contesto mutevole. Scrive Somaini che[6]ogni misura concreta in materia di spesa pubblica o di fiscalità è un elemento di un sistema complesso di interazioni tra la sfera politica e quella economica, in cui la seconda concorre a determinare la prima non meno di quanto questa a sua volta faccia nei confronti della seconda. Pertanto gli interventi futuri ben difficilmente possono produrre gli effetti sperimentati in epoche e contesti differenti.”

Il secondo elemento attiene alla frequente sopravvalutazione degli effetti della spesa pubblica. Infatti, non può dirsi dimostrato che essa in generale presenti una valenza superiore alla spesa privata, in quanto sarebbe motivata da scelte più lungimiranti – ad esempio riguardanti la crescita, il rispetto dell’ambiente, l’equità distributiva, etc. In materia di crescita, e quindi di investimenti, di superiorità della soluzione pubblica si può parlare solo per investimenti che hanno una rilevante natura infrastrutturale, purché impegnati con oculatezza, e per taluni investimenti destinati a produrre beni pubblici, per definizione accessibili a tutti. Gli investimenti privati, viceversa, sono meglio capaci di soddisfare le mutevoli esigenze dei mercati, rafforzano la competitività internazionale delle imprese e sono di solito più fortemente innovativi in merito a impiego di tecnologie e erogazione di servizi.

In altri termini, se il PNRR si fosse limitato a realizzare investimenti su beni pubblici e infrastrutture di provato valore economico-sociale, anche centralmente gestiti dalla pubblica amministrazione e totalmente finanziati con fondi pubblici, si sarebbe trattato di una decisione condivisibile. Purtroppo, viceversa, il PNRR si compone di una lunga lista di spese quasi mai argomentate e quindi si può temere che spesso potranno rivelarsi di dubbia utilità.

Un difetto connesso, anch’esso largamente sottolineato è che “non sembra considerare la necessità di attrazione di capitale privato come integrazione delle risorse pubbliche attraverso programmi in grado di dare un’accelerazione a forme virtuose di partenariato pubblico-privato (Ppp)[7], e laddove anche lo preveda adotta meccanismi tutt’altro che incentivanti. Il risparmio privato accumulato, come si è visto, non è mai stato così alto ma non sembra, purtroppo, che ci si sia curati seriamente – né in Europa né in Italia – di come stimolarne la mobilitazione.

[1] Deloitte, “Next Generation EU funding and the future of Europe. A unique opportunity for growth”, ottobre 2021.

[2] M. D. Tanner, “An Inclusive Post‐​COVID Recovery”, Cato Institute, September 15, 2020, https://www.cato.org/pandemics-policy/inclusive-post-covid-recovery

[3] È noto che una componente del piano consiste nelle cosiddette “riforme”: quelle nazionali non sempre mirano a reali semplificazioni e rimane comunque irrisolto il problema della forte burocratizzazione indotta proprio dalle regole europee che non vengono messe in discussione.

[4] Istituto Bruno Leoni, “Il PNRR e l’idraulica keynesiana”, 27 aprile 2021.

[5] Robert E. Lucas, Jr., “Econometric Policy Evaluation: A Critique”, 1976.

[6] E. Somaini, “Il socialismo del XXI secolo. Il ritorno del ‘keynesismo idraulico’?”, IBL Focus, 10 ottobre 2015.

[7] V. Gamberale, S. Gatti, “Keynes non basta, servono capitali privati e regole chiare per attirarli”, Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2021.

 

(Seconda parte, qui per la prima parte)

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