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Quota 100

Perché lo sciopero generale del 16 dicembre è incomprensibile

Tutti gli errori di Cgil e Uil con lo sciopero generale del 16 dicembre. L'analisi dell'editorialista Giuliano Cazzola

 

Adapt è un centro studi troppo attento ai problemi del lavoro per non occuparsi della proclamazione dello sciopero generale del 16 dicembre, per di più da parte di due sigle sindacali (la Cgil e la Uil) con la dissociazione della terza (la Cisl) la quale esprime un giudizio diverso (e sostanzialmente positivo) sui risultati del confronto con il governo; mentre quegli stessi contenuti sono divenuti i motivi a sostegno di un’astensione dal lavoro di rilevante significato politico. Uno sciopero generale ha sempre un valore politico, la cui legittimità nessuno mette in discussione poiché, in un sistema democratico, è riconosciuto ai sindacati il diritto di rivendicare un cambiamento profondo dell’indirizzo socio-economico di un Paese a loro avviso meglio corrispondente agli interessi del mondo del lavoro. In questo caso – se è consentito notarlo – vi sono elementi particolari che rafforzano il carattere politico dello sciopero generale, a partire dal contesto in cui si svolge: la presenza di un governo di larghe intese presieduto da una personalità di statura internazionale come Mario Draghi; il rimbalzo imponente (superiore ad ogni aspettativa) dopo un crollo drammatico del Pil nel primo semestre del 2020; l’incertezza sugli sviluppi della crisi sanitaria e sugli effetti di eventuali provvedimenti di restrizione; gli impegni straordinari derivanti dall’occasione storica del NGUE (e del Pnrr), nonché – si parva licet – la prossima elezione del Capo dello Stato, che in questa occasione costituisce, per la personalità che andrà al Quirinale, una indicazione sull’indirizzo politico nazionale ed europeo  dei prossimi anni.

Per come stanno i rapporti di forza nel Paese, uno sciopero generale oggi non può essere accusato di corrispondere agli interessi di un partito dell’opposizione, dal momento che la cinghia di trasmissione si è messa da tanto tempo a girare in senso inverso; e oggi sono i sindacati, in particolare la Cgil, a gettare la spada di Brenno sulla bilancia del potere.  Chi scrive ha avuto la possibilità – grazie alla cortesia di Adapt – di esprimere le sue valutazioni – anche critiche – sul ddl di bilancio in particolare per quanto riguarda le norme in materia di lavoro e pensioni. Se gli è consentito un giudizio tecnico (da ex sindacalista) il sottoscritto condivide il giudizio della Cisl sull’esito del negoziato e sui risultati ottenuti dai sindacati (anche se gli capita di non ritenere positivi alcune di essi).

Restando a livello tecnico, per quanto riguarda le motivazioni dello sciopero generale, nel dibattito di questi giorni si profila sempre più, quale causa scatenante dell’agitazione, il dissenso sulla distribuzione dei 7 miliardi di riduzione dell’Irpef, all’interno dello stesso universo del lavoro dipendente e dei pensionati, secondo un’impostazione allucinante, perché non si è mai visto – se non nei tempi dell’egualitarismo più becero – che “l’avversario” fosse il percettore di un reddito medio o medio-alto e che la “lotta di classe” si svolgesse  tra le commesse dei supermarket e gli impiegati che una volta erano definiti  di “concetto”. Per farla breve, la goccia che ha fatto traboccare il vaso e provocato il ricorso allo sciopero sembra essere dipeso dal venir a mancare (per colpa di taluni partiti) quel “contributo di solidarietà” che doveva contemperare l’aumento delle bollette per un ammontare di 250 milioni (subito recuperati da altre fonti) nell’ambito di un “ristoro” che nel giro di qualche mese ha superato i 7 miliardi. Per quanto possa essere sproporzionata la reazione (anche se ci si aggiungesse qualche cosa in più sulle pensioni, ignorando i recenti richiami dell’Ocse) non sarebbe la prima volta che i sindacati esagerano.

Personalmente ricordo uno sciopero generale che ebbe un grande successo fino a far cadere, nei primi anni ’90, il governo De Mita a causa dell’introduzione di un ticket sui ricoveri ospedalieri del valore di 300 milioni (di lire), che il successivo governo, presieduto da Giulio Andreotti, fu sollecito ad abolire. Mi sbaglierò ma trovo invece profondamente scorretti i motivi per i quali Cgil e Uil hanno chiamato i lavoratori a scioperare, come se si volesse imporre, con la lotta, una diversa visione, improntata ad un pauperismo dogmatico, della situazione di un Paese che cerca di uscire in avanti dalla crisi. In sostanza, l’Italia è tornata alla ribalta nella scena internazionale, ha recuperato la fiducia dei partner e dei mercati, è al terzo posto nei Paesi del G20 per il tasso di crescita superiore ad ogni aspettativa, è all’avanguardia nella campagna di vaccinazione di massa oppure è un Paese allo sbaraglio, più povero e disperato? Draghi non ha certamente bisogno che sia Landini a ricordargli che questi risultati economici sono il frutto del rimbalzo e che non ne è affatto assicurato il consolidamento, in presenza dei rischi che incombono sul versante dei costi delle materie prime, degli input e dei servizi, nonché per via delle incertezze dell’evolversi della pandemia nelle sue varianti imprevedibili. Ma l’aspetto che lascia sconcertati riguarda le motivazioni dello sciopero generale, la loro genericità.

Il 16 dicembre pare essere il giorno del destino, della catarsi, di un mondo del lavoro che si ribella perché – come è stato scritto – “in Italia c’è sempre di più una enorme questione sociale che merita risposte concrete”. Lo stesso disagio sociale che Pierpaolo Bombardieri vuole portare in piazza “perché in Italia non va tutto bene”. Così lo sciopero diventa una sorta di esorcismo dei mali del Paese, il salasso di un cerusico ai tempi della rivoluzione tecnologica, il sacrificio di una giovenca a un dio sconosciuto, indispettito e malevolo.

Andiamo a leggere ciò che Cgil e Uil hanno posto a base della mobilitazione (che poi è arrivata “fino allo sciopero generale”): contrastare la precarietà e l’evasione fiscale; riformare le pensioni; impedire le delocalizzazioni; varare una nuova politica industriale che conferisca un ruolo più forte dello Stato in economia; erogare maggiori risorse per la sanità, la scuola e la non autosufficienza; ridurre le diseguaglianze a partire dal Mezzogiorno; rilanciare la coesione sociale. Si direbbe che la Cgil e la Uil, nel costruire la loro piattaforma abbiano saccheggiato gli slogan degli striscioni esibiti durante le manifestazioni. Ma a questo “genericismo” il governo potrebbe rispondere in termini – anch’essi generali – ma ben più precisi, programmati e finanziati nell’ambito del Pnrr e nell’arco temporale che arriva al 2026. Già, perché nessuna legge di bilancio potrebbe avere la capacità sovraumana di rispondere alle richieste dei sindacati. La legge di bilancio potrebbe anticipare, pur rimanendo nel suo ruolo ordinario, qualche contenuto di riforma a medio termine. Può essere che non sia così. Ma Cgil e Uil non possono far finta di ignorare che vi sono altre sedi istituzionali e amministrative in cui il governo cerca di portare a compimento quelle riforme, previste come precise condizionalità nel PNRR, che non possono essere eluse o rinviate, perché dalla loro corretta attuazione dipende l’erogazione dei cospicui finanziamenti. Vogliamo parlare del lavoro?

QUADRO DELLE MISURE E RISORSE (MILIARDI DI EURO): Totale 6,66 Mld.

Ambiti di intervento/Misure Totale 1. Politiche attive del lavoro e sostegno all’occupazione 6,01. Riforma 1.1: Politiche attive del lavoro e formazione 4,40. Riforma 1.2: Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso – Investimento 1.1: Potenziamento dei Centri per l’Impiego 0,60. Investimento 1.2: Creazione di imprese femminili 0,40. Investimento 1.3: Sistema di certificazione della parità di genere 0,01. Investimento 1.4: Sistema duale 0,60. 2: Servizio civile universale 0,65. Investimento 2.1: Servizio civile universale 0,65.

Immaginiamo che sarà giunta notizia nelle sedi delle organizzazioni in lotta, di programmi che loro stesse avevano concordato con il governo Conte 2 (nostalgia, canaglia!) proprio allo scopo di ottenere una maggiore “occupabilità” e rapporti di lavoro più stabili e qualificati (Gol, piano delle competenze, riforma della cig, ecc.). Vogliamo ricordare a quanti paventavano, col venir meno del blocco, un’ecatombe di licenziamenti, che invece è in corso una netta prevalenza delle dimissioni volontarie? “La crescita dei rapporti cessati riguarda tutte le cause di cessazione: tra queste l’aumento maggiormente significativo – scrive il Lavoro – è costituito dalle Dimissioni (pari a 85,2%) mentre una crescita più contenuta si registra nei Pensionamenti (+2,0%) nelle Altre cause (+12%) e nei licenziamenti (+17,7%, pari a +17 mila)”. (fonte: Ministero del Lavoro).

Per quanto riguarda la riforma fiscale è presente in Parlamento un ddl di delega, sollecitato dalla Ue; nel ddl di bilancio sono previste nuove norme per la riscossione (ora siano a circa il 12% delle somme accertate e dovute). Poi c’è il problema della lotta all’evasione che ci consente di tornare al PNRR in cui è previsto quanto segue: “Spostare la pressione fiscale dal lavoro, in particolare riducendo le agevolazioni fiscali e riformando i valori catastali non aggiornati. Contrastare l’evasione fiscale, in particolare nella forma dell’omessa fatturazione, potenziando i pagamenti elettronici obbligatori anche mediante un abbassamento dei limiti legali per i pagamenti in contanti”.

Nel campo della istruzione e ricerca è contemplato nel Pnrr il potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione: dagli asili nido all’università per 19,44 miliardi, a cui si aggiungono 11,44 miliardi per la ricerca per un totale di 30,88 miliardi. Il 40% circa delle risorse “territorializzabili” del Piano sono destinate al Mezzogiorno, a testimonianza dell’attenzione al tema del riequilibrio territoriale: è il caso di ricordarlo visto che proprio ieri un autorevole sindacalista ha accusato il governo di aver dimenticato il Sud.

All’inclusione e coesione sono destinati più di 11 miliardi, con riferimento anche ai problemi della disabilità (altro motivo di critica al governo) con l’obiettivo della de-istituzionalizzazione e della promozione dell’autonomia delle persone con disabilità, attraverso il rafforzamento e la qualificazione dell’offerta di servizi sociali da parte degli Ambiti territoriali, la semplificazione dell’accesso ai servizi socio-sanitari, la revisione delle procedure per l’accertamento delle disabilità, la promozione dei progetti di vita indipendente, la definizione di progetti individuali e personalizzati.

Allo scopo di sviluppare una sanità pubblica che valorizzi gli investimenti nel sistema salute in termini di risorse umane, digitali, strutturali, strumentali e tecnologici, rafforzare la ricerca scientifica in ambito biomedico e sanitario e potenziare e innovare la struttura tecnologica e digitale del SSN a livello Centrale e Regionale, sono destinati 8,63 miliardi che secondo Cgil e Uil sono insufficienti: qualche rimpianto per il Mes?

Venenum in cauda la politica industriale che secondo la piattaforma dello sciopero deve prevedere un ruolo dello Stato nell’economia. In verità sono destinati nel Pnrr poco meno di 24 miliardi per irrobustire il settore manifatturiero orientato all’export nella sfida dell’innovazione e della modernizzazione mediante contributi per sostenere gli investimenti in macchinari, impianti e attrezzature per produzioni di avanguardia tecnologica. L’importo dei contributi è pari al 40% dell’ammontare complessivo delle spese ammesse.

Ci fermiamo qui. Lungi da noi l’idea di suonare il piffero per il governo Draghi. L’ “atterraggio” dei programmi e l’impiego adeguato delle risorse hanno davanti a sé un percorso irto di insidie e di limiti difficilmente superabili. Ma lo scopo di questo scritto è un altro: dimostrare che quelle richieste sindacali, infilate a casaccio alla stregua di slogan, per le quali i lavoratori italiani sono chiamati a scioperare, hanno già avuto delle risposte più che adeguate. Ben più concrete e dettagliate di rivendicazioni che sembrano un autodafé ad opera di sindacati che non contribuiscono a risolvere i problemi, ma divengono (sarebbe meglio dire “rimangono”?) loro stessi una parte rilevante della “questione Italia”.

 

Articolo pubblicato su bollettinoadapt.it

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