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Quota 100

Vi spiego perché le retribuzioni sono più basse in Italia

L'analisi di Giuliano Cazzola

 

L’articolo di Giuseppe Colombo su Huffpost ha sollevato, con argomenti solidi, l’esistenza di ‘’una questione salariale’’ aperta e irrisolta in Italia. Io non pretendo di affrontare il complesso dei temi contenuti nell’articolo; credo che sia più utile evidenziare le considerazioni che, a mio parere, mancano nell’articolo e che ci conducono al cospetto di un interrogativo di fondo: perché da noi, diversamente da altri Paesi almeno nella stessa misura – succedono queste cose? Perché le retribuzioni sono più basse ed è tanto diffuso il lavoro irregolare?

Spesso viene il dubbio che non basti attribuire la responsabilità alla politica, perché negli ultimi decenni si sono alternati al Governo partiti e coalizioni di differente ispirazione, senza che la situazione mutasse almeno in modo significativo. Ricordiamo tutti la commozione con cui Teresa Bellanova, ex sindacalista, allora ministra dell’Agricoltura nel Conte 2, annunciò l’approvazione di una norma che avrebbe inflitto un duro colpo al caporalato nelle campagne; salvo doverne riscontrare a distanza di un anno il sostanziale fallimento dell’operazione. L

’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha effettuato nel 2020 79.952 ispezioni dove ha provveduto alla tutela di 267.677 lavoratori interessati da irregolarità. Nel computo sono compresi 22.366 lavoratori in “nero”, pari all’8,4% del totale degli irregolari. In proposito, nel Pnrr è annunciata l’assunzione di altri 2 mila ispettori che si aggiungeranno all’organico corrente (indicato nel Pnrr nel numero 4.500) oltre il 10% del quale è prevalentemente adibite a funzioni di polizia giudiziaria (militari del Comando Carabinieri per la Tutela del lavoro). È il caso di sottolineare che – sia pure con l’eccezionalità di quanto è accaduto lo scorso anno – i “numeri” degli esiti dell’attività di vigilanza sono visibilmente modesti, tanto da far dubitare che un pur auspicabile rafforzamento del personale ispettivo sia in grado di ridurre drasticamente i fenomeni di irregolarità nella tutela e nella sicurezza del lavoro, che presentano sempre più caratteristiche strutturali.

Colombo richiama l’attenzione sull’ampiezza del divario tra costo del lavoro e salario netto che rende oneroso per il datore qualsiasi aumento retributivo il quale, arrivato in busta paga, viene percepito a stento e in modo dilazionato dal dipendente. Ma ci sono altri fattori che spiegano – anche se non giustificano – la condizione salariale dei lavoratori italiani nel confronto con i colleghi di altri Paesi. L’articolo di Colombo ricorda correttamente le differenze nel costo della vita; ma pure a parità di potere d’acquisto rimane comunque lo svantaggio delle retribuzioni italiane. Ci sono altri aspetti che entrano in campo: tra di essi la questione della produttività del lavoro.

Su questo aspetto cruciale, l’Italia appare sempre più lontana dall’Europa: secondo Eurostat, nello stesso periodo di tempo (1995-2019) in cui la produttività del lavoro italiano ha sperimentato una media annua dello 0,3%, l’Ue a 28 segnava un incremento dell’1,6%; nell’Ue15 la variazione media annua era dell’1,3% e dell’1,2% nell’area Euro. Tassi di incremento in linea con la media europea sono stati registrati dalla Francia (1,3%), dal Regno Unito (1,5%) e dalla Germania (1,3%). Per la Spagna il tasso di crescita (0,6%) è stato più basso della media europea ma più alto di quello dell’Italia.

È sufficiente citare quanto Mario Draghi ha scritto nella Prefazione al Pnrr a proposito di questo ormai storico gap: “Dietro la difficoltà dell’economia italiana di tenere il passo con gli altri paesi avanzati europei e di correggere i suoi squilibri sociali ed ambientali, c’è l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento. La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia – nota il presidente del Consiglio – è diminuita del 6,2 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo”.

Certo, la produttività non è solo un problema del capitale umano, ma del complesso degli input (investimenti, nuove tecnologie, R&S, servizi pubblici efficienti, ecc.) che determinano l’organizzazione della produzione e i prodotti. Ma per aumentare le retribuzioni occorre saper agire nelle sedi in cui lo scambio tra le parti ha un senso, una convenienza; ovvero nel luogo di lavoro attraverso la contrattazione di prossimità, che è poi – in diverse forme – una delle caratteristiche della struttura della contrattazione collettiva vigente in altri Paesi, recentemente potenziata (si veda la Spagna) laddove non costituiva una priorità nel campo delle relazioni industriali.

In Italia non solo non abbiamo consolidato quest’orientamento, ma siamo tornati indietro, al primato del contratto nazionale di categoria (quale è la produttività negoziabile a quel livello?) che peraltro – a seguito del dibattito sul salario minimo legale e del fenomeno dei c.d. contratti pirata – è tornato in auge anche nell’ambito della ricerca di strumenti giuridici per attribuirvi efficacia erga omnes. Negli anni scorsi si era cercato di rendere strutturale la detassazione – entro un tetto determinato – dei miglioramenti retributivi legati ad obiettivi di miglioramento della produttività e della qualità del lavoro. Addirittura con l’articolo 8 della legge del decreto n.138 del 2011 si era trovato il modo per stabilizzare la contrattazione di prossimità; ma su quella norma esiste tuttora una fatwa della Cgil alla quale si sono tutti attenuti.

In questa legislatura il Governo giallo-verde non ha certo favorito questo livello negoziale; ma anche il Governo Conte 2 ha proseguito in retromarcia. Eppure la grande prova di responsabilità che hanno fornito le forze sociali nel garantire la riapertura delle aziende in condizione di relativa sicurezza, dovrebbe valorizzare quella “contrattazione di prossimità” che ha consentito questi risultati. Per correttezza poi bisognerebbe ricordare, pur con tutti i suoi limiti, la “via di fuga” nel welfare aziendale. Il Piano non si occupa di politica contrattuale e salariale. Ciò non significa che il tema non esista concretamente nella realtà soprattutto a fronte dell’esigenza di un notevole recupero di produttività rispetto agli altri Paesi. Mario Draghi non ha certo dimenticato quanto scrisse, insieme a Jean Claude Trichet, nella lettera del 5 agosto 2011: “C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”. Corre la voce che il premier voglia ripercorrere i fasti del Protocollo del 1993. Allora l’obiettivo comune fu quello di una politica salariale coerente con il rientro dall’inflazione. Oggi non potrebbe che essere la svolta nella produttività del sistema Italia.

 

Articolo pubblicato su huffingtonpost.it

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