Quei giorni, che hanno caratterizzato la passata legislatura, sono stati vissuti pericolosamente. Il tutto era iniziato con i grandi fuochi d’artificio del governo giallo-verde, con Giuseppe Conte nel ruolo di semplice notaio tra Luigi Di Maio, il capo dei 5 Stelle, e Matteo Salvini, a sua volta, leader della Lega. Ed ecco allora la grande battaglia contro i vitalizi dei parlamentari, per poi prendersela contro le cosiddette “pensioni d’oro”. Per concludersi con l’apoteosi dal balcone di Palazzo Chigi per celebrare, grazie al reddito di cittadinanza ed al varo della prima legge di bilancio, la definitiva sconfitta della povertà.
Per fortuna le basi di partenza erano relativamente buone. L’indebitamento era ancora pari all’1,5 per cento, in continua diminuzione dal 2014, quando si era attestato sul 3 per cento del Pil. Qualche segnale negativo si coglieva sull’andamento del debito che aveva fatto registrare un lieve aumento (dal 134,2 al 134,4 per cento del Pil) rispetto all’anno precedente. Ma era poca cosa. Giuseppe Conte, quindi poteva andare avanti, anche se Matteo Salvini scalpitava, per rovesciare il tavolo ed aprire una nuova fase. Dovrà aspettare fino al 4 settembre del 2019. Ma sarà una cocente sconfitta.
Il Conte II sarà un piccolo trionfo dell’altro Matteo. Quel toscanaccio di Renzi, capace di mandare in malora le presunte strategia della Lega, e regalare al Pd l’ingresso nella stanza dei bottoni, costruendo una maggioranza – giallo rossa – nuova di zecca. Sarà al timone nei successivi 18 mesi. Con Giuseppe Conte che, smessi gli abiti del semplice notaio, assumerà sempre più il piglio del conductor. Nel frattempo le sovvenzioni legate al reddito di cittadinanza, disposte dal decreto legge del 28 gennaio 2019, n.4 (maggioranza giallo-verde), cominciavano a prendere corpo. Per la verità con scarse conseguenze ai fini degli equilibri di finanza pubblica. Ma questo solo grazie ad una fortuita coincidenza.
Nel 2019, l’indebitamento risulterà addirittura inferiore a quello dell’anno precedente (1,5 per cento) ed il rapporto debito pubblico/Pil in leggera contrazione: 134,1 per cento. Risultato da attribuire ad un forte aumento delle entrate (24,9 miliardi di euro secondo l’Istat) in grado di far fronte a maggiori spese per 13,6 miliardi di euro. Le maggiori entrate – e meno male che al Governo c’era stata la Lega – saranno le più alte dal 2010. Lo stesso Mario Monti non era riuscito in tanto. Nel 2012 l’aumento era stato pari a soli 22,4 miliardi. Sul fronte della spesa invece quella al netto degli interessi, nel 2012 era cresciuta solo di 3,8 miliardi, mentre nel 2019 l’aumento era stato di quasi 18. Insomma l’idea del “tassa e spendi” non era stata solo una prerogativa della sinistra.
Quello descritto sarà l’anno prima della tempesta. Nel 2020, infatti, il Covid, il virus “Made in China”, sconvolgerà ogni futuro equilibrio. Solo in quei terribili dodici mesi l’indebitamento passerà da 27 a 160 miliardi di euro. Dall’1,5 al 9,7 per cento del Pil. Sarà il salto più alto dell’intera Eurozona, esclusa la Grecia. La Stessa Spagna che presenterà un indebitamento pari al 10,1 per cento, partiva da una posizione (3,1) molto più alta. Devastante il riflesso sul debito, che aumenterà di 20,8 punti. Record in tutta l’Eurozona, e primato nella più recente storia del Paese a partire dal 1980. Un vecchio massimo, con una crescita di 10,4 punti, la metà, si era avuto solo nel 2009.
Fenomeno non solo italiano. Negli altri Paesi europei, escluso lo Stivale, la crescita era stata in media di 12,2 punti. Ma, altra caratteristica, già a partire dall’anno successivo, la corsa al rientro era iniziata. Alla fine del 2022 la flessione, in Italia, grazie a Mario Draghi e Daniele Franco, sarà pari a 10,5 punti, contro una media degli altri Paesi dell’Eurozona pari a 4,8. Ma nonostante ciò, il suo rapporto debito/Pil (144,1 per cento), sovrasterà quello degli altri Paesi. Confermando il Bel Paese nel suo ben triste primato.
Purtroppo gli ultimi dati Istat, relativi al primo trimestre dell’anno in corso, mostrano quanto sia lunga la coda da scorticare. L’indebitamento è stato pari ad oltre 58 miliardi: 7,5 miliardi in più rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente. Frutto di maggiori spese per oltre 18 miliardi e maggiori entrate per 11. Dati che indicano quanto sarà difficile rispettare a fine anno il target indicato dal Def, con un indebitamento pari a 90,89 miliardi di euro(circa il 4,5 per cento del Pil). Non si dimentichi, tra l’altro, il carico aggiuntivo legato ai vari “bonus facciata” che da solo pesa per quasi 44 miliardi di euro. Dato tutt’altro che definitivo.
Ma al di là di questo, la serie dei dati mostra, nel quinquennio, una forte accelerazione della spesa, al netto degli interessi, che è stata difficile contenere. Ad essere più esposti sono nell’ordine: l’Italia, la Germania, la Grecia, la Spagna, la Francia, Malta e l’Austria. In tutti questi Paesi il salto rispetto al 2019 è superiore a quello della media dell’Eurozona. Purtroppo l’Italia, con una differenza di 7,3 punti è alla testa di questo schieramento. Perché è importante questo dato? Perché esso è il cuore della riforma del Patto di stabilità e crescita ipotizzato dalla Commissione europea.
Nella bozza di Regolamento si sostiene che la “crescita della spesa netta nazionale” deve essere, di norma, “inferiore alla crescita della produzione a medio termine, nell’orizzonte del piano”. Di quel piano, a quattro o sette anni, che dovrà essere concordato con la Commissione. Sebbene la “spesa netta” non corrisponda pienamente ai dati che abbiamo riportato, essa ne rappresenta tuttavia un’indiscutibile proxy. Ne deriva, pertanto, che qualora le nuove regole del Patto fossero in vigore, quel gruppo di Paesi, con alla testa l’Italia, non passerebbe un buon quarto d’ora.
Ed ecco allora il perché di determinati atteggiamenti. Giorgia Meloni si è più volte pronunciata contro una ratifica immediata del Mes: il Meccanismo europeo di stabilità. Facendo sue alcune argomentazioni di Giuseppe Conte, durante la negoziazione da parte di quest’ultimo in quanto Presidente del consiglio, ha riproposto la cosiddetta “logica di pacchetto”. Condizionare la ratifica ad una trattativa di carattere più generale che non riguardi solo l’Unione bancaria, come indicava allora il capo dei 5 stelle, ma la vi includa la stessa riforma del Patto di stabilità.
Le ragioni di questa posizione sono evidenziate nei numeri che abbiamo riportato. E che, con le nuove regole del Patto di stabilità, porterebbero direttamente a quel commissariamento che Italia e Francia vedono come il fumo negli occhi. L’opposizione giallo-rossa, invece, non ci sta. Come se gli effetti di quel “long Covid” non fossero soprattutto conseguenza della loro cattiva gestione. Contro la quale lo stesso Mario Draghi – il che è tutto dire – ha potuto fare ben poco.