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Intesa Sanpaolo

Perché i sindacati di Intesa Sanpaolo non hanno firmato l’accordo sulla settimana corta

Intesa Sanpaolo: ecco i 6 motivi sindacali alla base del no delle organizzazioni dei bancari all'accordo sulla settimana corta

 

Intesa Sanpaolo ha lanciato ieri una serie di iniziative per i suoi dipendenti, tra cui la cosiddetta “settimana corta”, la flessibilità dell’orario di lavoro e lo smart working. Argomenti affrontati per alcuni mesi al tavolo sindacale, tuttavia senza raggiungere un punto di equilibrio. Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin non hanno firmato l’accordo e il «no» è motivato da ragioni ben precise, che StartMag ha raccolto dal fronte sindacale di Intesa Sanpaolo.

Eccole:

1. Intesa con l’iniziativa presa ieri violerebbe le previsioni del contratto nazionale sulla gestione dello smart working: il contratto nazionale, infatti, stabilisce un limite di 10 giorni al mese proprio per assicurare un giusto equilibrio fra attività lavorativa da casa e in presenza. L’azienda, invece, ha previsto 120 giorni di fila a casa e per alcuni uffici addirittura 140 giorni: tale impostazione mette palesemente a rischio la socialità del lavoro, la formazione continua fra colleghi e soprattutto pone il concreto rischio – secondo le preoccupazioni sindacali – di una eventuale futura esternalizzazione di quei lavoratori che di fatto escono strutturalmente dal luogo di lavoro. Senza dimenticare che l’accordo, ancora in vigore nel gruppo Intesa, prevede sino a otto giorni al mese di smart working: ne consegue che, restando nei limiti del contratto nazionale, si sarebbe potuto incrementarne l’utilizzo già del 25%.

2. La banca penalizza pesantemente i colleghi di filiale: l’azienda dice che in questo modo è “ancora più vicina ai bisogni delle sue persone”. Davvero? Peccato che se le “sue persone” sono quelle che lavorano in filiale, non c’è possibilità di fare lo smart working. Già ora i lavoratori di filiale – dicono i sindacati – vivono soverchiati dalle pressioni commerciali e stressati a causa della carenza d’organico. In Intesa è altissimo il numero di volantini sindacali firmati da tutte le organizzazioni sindacali dei territori che lamentano quotidianamente tutta una serie di carenze. I sindacati chiedevano una garanzia minima che anche per chi lavora in filiale venisse data la possibilità almeno un giorno alla settimana in smart working, ma l’azienda non ha voluto.

3. Il vero obiettivo di Intesa non è l’esigenza del dipendente, ma unicamente la riduzione dei costi aziendali: con il caro energia l’azienda (come avviene non solo per gli istituti di credito) ha trovato il modo di risparmiare i propri costi scaricandoli sui colleghi. Inoltre, entro febbraio 2023 l’azienda dovrà decidere quanto distribuirà di dividendi agli azionisti e che posizione di bilancio prenderà rispetto a due argomenti fondamentali: copertura dei crediti e requisiti di capitale. Lavorando in smart working anche sei mesi di fila, l’abitazione del dipendente si trasforma nei “locali della banca” con tutti i costi delle utenze a carico dello stesso lavoratore. Per la banca ciò si traduce in grandi risparmi e, magari, si realizza pure la possibilità di ridurre gli spazi necessari dei luoghi di lavoro, vendendo, conseguentemente, un po’ di palazzi e incassando importanti somme. La banca, inoltre, risparmia anche sul buono pasto: quindi ha tutta la convenienza a far lavorare il collega da casa (alla faccia della finta “volontarietà”), ma questo vale solo per chi lavora nelle strutture centrali.

4. Il piano di Intesa penalizza pure i dipendenti con disabilità e fragili: per queste persone, infatti, vale la logica per cui se lavori nelle strutture centrali avrai la massima fruibilità dello smart working, ma se invece lavori in filiale non c’è diritto alcuno. Quindi la disabilità – ed è inaccettabile – subisce un’ulteriore discriminazione.

5. Non è stato regolamentato il diritto alla disconnessione: dando mano libera agli orari di lavoro, in ingresso, in uscita e con più intervalli si corre il rischio, di fatto, di trasformare il lavoratore dipendente in un libero professionista, senza limiti di orario e alla mercé delle volontà aziendali per prestazioni di lavoro, quindi senza regole certe e chiare.

6. La settimana corta 4×9 deve essere una possibilità per tutti: i sindacati hanno proposto una sperimentazione di sei mesi per permettere a tutti i lavoratori di farne richiesta; alla fine della sperimentazione, l’azienda avrebbe dovuto presentare un resoconto, evidenziando eventuali unità di lavoro con criticità, dove non era possibile concederlo, per poi intervenire a risolvere i problemi organizzativi che lo precludevano; anche qui l’azienda ha detto «no» limitando la sperimentazione solo a pochissime filiali di grandi dimensioni. Insomma, non c’è stato nessuno sforzo organizzativo per l’azienda per andare incontro alle esigenze dei suoi dipendenti. Se poi ci mettiamo l’arroganza dimostrata da chi ha condotto le trattative, il gioco è fatto.

Intanto, sul fronte sindacale, il dissenso sta aumentando di giorno in giorno perché soprattutto nell’organizzazione sindacale Uilca molte rappresentanze del territorio stanno mettendo in discussione l’operato della coordinatrice, Simona Ortolani.

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