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Tunisia

Perché è croccante l’idea di social bond proposti da Messina (Intesa Sanpaolo)

Che cosa pensa l'editorialista Gianfranco Polillo dei social bond proposti da Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo

Sono anni ormai che i nostri ministri dell’Economia (tutti per la verità: di centro, di destra e di sinistra) continuano a ripeterci che l’Italia ha il terzo debito più alto del mondo. Giusta considerazione. In effetti solo il Giappone, che ci distanzia di quasi cento punti, e la Grecia (una cinquantina di punti in più), stanno peggio di noi. Sennonché le statistiche internazionali non dovrebbero essere lette a senso unico, perché altrimenti si rischia di dare un’immagine distorta del proprio Paese. Ma ciò che è ancor peggio: di non capirlo. Il colmo per un ministro del Tesoro che, su dati meno parziali, dovrebbe costruire le linee di una possibile linea di politica economica. Antefatto obbligato per capire il siparietto che si è aperto tra Carlo Bonomi, neo presidente di Confindustria, e Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa San Paolo.

I dati finora trascurati dai nostri politici riguardano i rapporti con l’estero e i livelli di disoccupazione. Nel primo caso, l’Italia è il sesto esportatore netto dei Paesi Ocse, con un avanzo annuo medio delle partite correnti nella bilancia dei pagamenti, nel sessennio 2013/19, pari ad oltre 43 miliardi di dollari. Certo rispetto alla Germania (un surplus medio di oltre 280 miliardi) siamo ad appena il 15 per cento.

Comunque, seppur nel nostro piccolo e considerato quanto avviene negli altri Paesi (il deficit americano è stato di 425 miliardi di dollari), facciamo la nostra brava figura. Al contrario di quanto avviene sul terreno della disoccupazione: terzo posto tra gli stessi Paesi. Più o meno nello stesso periodo (terminale: 2018) il tasso medio di disoccupazione è stato pari all’11,7 per cento. Inferiore solo a quello della Grecia (23,8%) e della Spagna (20,7%), ma di gran lunga superiore a quello tedesco (4,35%) o quello americano (5,33%).

Che vi sia qualcosa che non va è quindi evidente. Specie se si considera che il coronavirus non correggerà questi squilibri di fondo, ma li aggraverà. Il Def prevede, infatti, per il biennio 2020/21 un avanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti pari al 3 per cento del Pil, ma un tasso di disoccupazione dell’11,6 e dell’11 per cento. Che relazione c’è tra queste diverse grandezze? Le politiche di austerità, rivolte ad un ipotetico (visti i risultati) contenimento del debito, hanno depresso l’economia reale. Le industrie, quelle che potevano, si sono buttate sull’estero, inserendosi soprattutto nelle grandi catene del valore. Il crollo del mercato interno ha fortemente contratto le esportazioni. Producendo il surplus più che consistente delle partite correnti della bilancia dei pagamenti.

Bene: si potrebbe dire. Siamo un Paese gagliardo. Se non vi fosse il risvolto della medaglia. Il surplus con l’estero è automaticamente compensato dalle partite del conto finanziario. In cui è contabilizzato l’eccesso di risparmio, che deriva appunto dall’avanzo delle partite correnti. Risparmio che, essendo superiore agli investimenti realizzati, prende la via dell’estero in cerca di un possibile impiego. Che poi nella maggior parte dei casi debba accontentarsi di un rendimento minimo, questo è solo conseguenza degli ingorghi che si verificano su un mercato finanziario affogato nella liquidità voluta dalle Banche centrali.

Per trovare una via d’uscita a questo marasma, Carlo Messina ha proposto una gestione più intelligente del debito pubblico italiano. Si emettano nuovi titoli, bond sociali – come li ha definiti – che abbiano rendimenti competitivi (ci vuole poco) e sgravi fiscali. Nella sua intervista a Il Sole 24 Ore aveva anche parlato, inopinatamente, di uno scudo fiscale per chi trasferisce capitali dall’estero e li investe sui nuovi bond. Proposta che ha fatto storcere il naso a Carlo Bonomi: “Io personalmente – ha replicato – ma anche Confindustria si è sempre battuta per coloro che pagano le tasse”. Quindi nessuno scudo a favore dei “disertori”. Ma più un equivoco, che non vero contrasto.

Esportare all’estero capitale è perfettamente legale, sempre che il trasferimento avvenga nelle forme previste dalla relativa normativa. Noi stessi, in un precedente intervento, avevamo indicato in quasi 200 miliardi (la stessa cifra riproposta da Messina) il valore degli asset detenuti all’estero dagli italiani e regolarmente denunciati, nel quadro RW, della dichiarazione dei redditi. Ma il potenziale finanziario che potrebbe far da sponda alle nuove emissioni è di gran lunga superiore a questa cifra, se si considera il valore degli investimenti di portafoglio (fondi comuni d’investimenti, Gestioni patrimoniali, Polizze vite, ETF, Sicav e via dicendo) in essere e che si possono recuperare. Finora il surplus cumulato del Conto finanziario dal 2013 in poi è stato pari a quasi 300 miliardi di euro: un valore corrispondente all’82 per cento del maggior debito pubblico accumulato. Per cui, ad averci pensato prima, oggi non avremmo particolari patemi d’animo. Il Giappone si è concesso il lusso di avere un debito di gran lunga maggiore a quello italiano, proprio perché quasi interamente controllato dai residenti.

Naturalmente, nel varare questi bond – come potrebbero essere i prossimi BTP Italia – occorrerà prendere alcune precauzioni al fine di non determinare scossoni nei confronti dei titoli già emessi. In particolare dovrà esservi una segmentazione del mercato per limitare al massimo i possibili arbitraggi. Vendo i vecchi titoli che posseggo, per acquistare quelli più convenienti. Ma si tratta di semplici tecnicalità.

L’importante, invece, è non far cadere proposte, avanzate da più parti, e tutte rivolte nella stessa direzione. L’austerity degli anni passati ha prodotto più danni che risultati. Meglio quindi cercare nuove strade.

 

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