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Perché Bruxelles picchia sul debito pubblico italiano? L’analisi di Polillo

L'analisi di Gianfranco Polillo, già sottosegretario all'Economia

Se procedura d’infrazione dovrà essere, scatterà per eccesso di debito. Quella palla al piede che l’Italia si trascina da tempo immemorabile. Il nostro peccato originale risale agli anni ‘70. Fu la conseguenza dei meccanismi di indicizzazione profusi a piene mani nel corpaccione della società italiana, nel disperato tentativo di difenderla dalla ventata inflazionistica. La scala mobile, con un coefficiente superiore all’unità, protesse e migliorò i salari più bassi. La spesa pubblica aumentò, anno dopo anno, per tener conto del deprezzamento monetario. Le regole contabili, che avrebbero dovuto garantire un maggior controllo qualitativo, persero progressivamente ogni valore.

Fu un arrendersi all’ineluttabile. Quel cambiamento nei rapporti di forza tra Paesi sviluppati e produttori di materie prime (Enrico Berlinguer) che fu all’origine della quadruplicazione del prezzo del petrolio. Analisi corretta, cui seguirono, tuttavia, risposte sbagliate. Si tentò, per la prima volta, la via dell’austerity: l’impossibile difesa dell’esistente, grazie ad un dirigismo redistributivo esasperato, invece di puntare sulla forza del mercato. La suggestione di una vita frugale, contro i demoni della modernità, quasi un anticipo anti litteram di quella “decrescita felice” di cui oggi tanto si discute.

Si doveva fare esattamente il contrario, pur con la necessaria gradualità: rendere più flessibile il mercato del lavoro, abbandonare al loro destino le imprese più decotte per liberare risorse umane e capitali a favore dei settori più innovativi, riqualificare la spesa pubblica, modernizzando, al contempo, la pubblica amministrazione. Insomma: realizzare quelle riforme di struttura che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, ci chiedono Commissione europea ed istituzioni internazionali. Le impedì lo schema del “reciproco assedio”: con il Pci e la Dc di allora preoccupati soprattutto di difendere i rispettivi insediamenti sociali. Più o meno quel che accade oggi nei complicati rapporti dell’intesa giallo-verde.

Le imprese italiane reagirono allo stallo programmatico con forti investimenti nell’innovazione di processo, per aggirare le rigidità del mercato del lavoro. Più capitali e macchinari per fare più o meno le stesse cose a un prezzo in grado di reggere la concorrenza internazionale. Venne quindi meno ogni propensione all’innovazione di prodotto, anche in quei settori – valga per tutti la parabola dell’Olivetti – in cui l’Italia aveva conquistato una posizione di nicchia, che poteva essere foriera di importanti sviluppi. Vane risultarono le proposte alternative. La stessa banca d’Italia, allora responsabile della politica monetaria, non poté che assecondare quella deriva per non essere accusata di “sedizione”. Come si espresse Guido Carli in una drammatica seduta, nel corso della presentazione delle sue “Considerazioni finali”.

Si tirò avanti puntando sull’illusione monetaria. I titoli emessi garantivano un interesse sempre maggiore, ma in termini reali non coprivano il tasso d’inflazione. Era un hair cut continuo e sistematico nei confronti dei risparmiatori italiani – i bot people – che non avevano consapevolezza della loro precarietà. Una giostra che continuò fino agli inizi degli anni ’80, quando cambiò la politica monetaria americana, costringendo l’interna Europa ad adeguarsi. Fu Paul Volcker, che ne divenne il presidente, a decidere che occorreva porre fine all’epoca dell’inflazione permanente. Alzò bruscamente i tassi d’interesse portando il loro livello oltre la sottostante inflazione. Offrendo, finalmente, ai risparmiatori americani, la necessaria difesa.

La Repubblica federale tedesca, che già allora dominava la scena finanziaria europea, decise di adeguarsi. Costringendo le principali economie europee a fare altrettanto. L’Italia ne seguì l’esempio, ma con maggiori difficoltà. La macchina della spesa pubblica, anche a causa delle precedenti indicizzazioni, era fuori controllo. L’indebitamento dello Stato una sorta di variabile indipendente. La Banca d’Italia costretta a finanziare il relativo deficit: acquistando quei titoli che il mercato rifiutava, a causa di un rendimento inadeguato. Il “divorzio” alla fine risolse il problema dei separati in casa. Se lo Stato non è in grado di risparmiare, almeno finanziasse la sua prodigalità con interessi a tassi di mercato. E fu l’inizio di quella crescita del debito che all’inizio degli anni ’90, aveva già raggiunto un tetto vicino al 100 per cento del Pil. Dove l’onere per interessi pesava per circa il 30 per cento della spesa complessiva. Con la crisi del ‘92 tutti i nodi vennero al pettine, determinando il definitivo collasso del vecchio sistema politico.

Ci vollero anni per contenere la spesa degli interessi, maturati sul debito fino ad allora accumulato. La nascita dell’euro, da questo punto di vista, fu risolutiva. Le politiche restrittive, che ne accompagnarono la nascita, ridussero progressivamente il deficit di bilancio. Al tempo stesso l’ombrello europeo consentì di abbassare progressivamente lo spread nei confronti del Bund tedesco. Ma non fu un pasto gratis. L’Italia fu ammessa alla tavola imbandita, solo dopo aver garantito che il debito sarebbe stato progressivamente ridotto. In compenso dovette accettare un tasso di cambio, nei confronti della nuova moneta, quasi proibitivo. Che avrebbe reso molto più problematico mantenere quel tasso di crescita che l’aveva premiata negli anni precedenti.

L’inizio di quel purgatorio di cui parlò Antonio Fazio, l’allora governatore della Banca d’Italia, nel corso di una famosa audizione parlamentare. Un nuovo vincolo destinato a pesare sulle gracili spalle dell’economia italiana. Che poteva essere rimosso solo accelerando il ritmo di sviluppo. Modernizzando il suo apparato produttivo. Le grandi riforme che latitano da un tempo infinito. E che rappresentano la grande delusione della Seconda Repubblica.

Bisogna partire da qui per decifrare il futuro. Le nuvole minacciose che si stagliano all’orizzonte. Dopo una riduzione della spesa d’interessi, che si è protratta per più di 15 anni, siamo di nuovo ad un giro di boia. Dalla nascita del governo giallo-verde, a causa dello spread più elevato, la spesa per interessi, secondo le valutazioni della Banca d’Italia aumenterà di 5 miliardi nel 2019 ed addirittura di 9 l’anno successivo. E poi? Questo è il grande interrogativo al quale è difficile dare risposta, alla vigilia delle nuove turbolenze comunitarie. In un contesto – stretta della politica monetaria americana e fine del quantitative easing – che inasprisce le condizioni di base. E rischia di riportarci in quel girone infernale, che furono gli anni’80.

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