Non si è ancora spenta l’eco della presentazione delle linee guida del piano nazionale di ripresa e resilienza – condizione essenziale per beneficiare dei fondi del dispositivo di assistenza finanziaria noto come Recovery and resilience fund (RRF) – con i suoi ambiziosi obiettivi economico-sociali di lungo termine, tra cui spicca il raddoppio del tasso di crescita dell’economia italiana dallo 0,8% dell’ultimo decennio al 1,6% della media EU. Sette le macro missioni attraverso cui conseguire tali obiettivi: digitalizzazione e innovazione; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità; istruzione e formazione; equità, inclusione sociale e territoriale; salute. Per ciascuna di esse viene elencato un gruppo di sotto obiettivi, accompagnati da riforme in sei aree: investimenti pubblici, pubblica amministrazione, ricerca e sviluppo, fisco, giustizia e lavoro. Il tutto sotto la guida delle raccomandazioni specifiche per il nostro Paese, emesse dal Consiglio nel 2019 e nel 2020.
Due i rilievi da fare subito: da un lato, si tratta del solito libro dei sogni (molti dei quali condivisibili nel merito, ma chi non ama sognare?) che gira sul disco fisso dei Pc del Mef da qualche anno e che va sotto il nome di Programma Nazionale di Riforma. Ad aprile di ogni anno (quest’anno a luglio), con la presentazione del Def, gli viene data una rinfrescata, ripubblicato, ma si stenta ad apprezzarne l’impatto concreto sull’assetto economico e sociale del Paese. Dall’altro, abbiamo difficoltà a comprendere come sia possibile affidare ad un piano di così lunga gittata e prevedibile lentezza nella materiale esecuzione, il ruolo di stimolo decisivo per recuperare nel 2021 un calo congiunturale del PIL 2020 che potrebbe superare, nonostante l’ottimismo del ministro Roberto Gualtieri, il 10%. Considerato che, se andasse tutto bene, potremmo vedere qualche miliardo del Rrf nel secondo semestre 2021, resta da capire a cosa si affiderà l’anno prossimo questo Governo per rilanciare il Paese.
Nel dettaglio, il piano fonda su premesse ampiamente contestabili nel merito. Esso infatti trascura il fatto che se l’Italia cresce regolarmente meno degli altri da circa 20 anni, non è per una congiuntura astrale, ma perché, come chiaramente attestato dai dati, è venuta meno una componente fondamentale della domanda aggregata e quindi del PIL: i consumi e gli investimenti della Pubblica Amministrazione. La forbice di crescita con Francia e Germania è proprio descritta dalla differenza in queste voci. E ciò in ossequio alle prescrizioni che giungevano da Bruxelles, con le raccomandazioni Paese, e da Francoforte, con la lettera a firma Draghi – Trichet dell’agosto 2011, documenti ampiamente sovrapponibili.
Desta qualche preoccupazione sapere che a dettare le priorità della nostra politica economica siano sempre gli stessi soggetti che ci hanno condotto verso il declino, almeno a partire dal 2011.
Molti dei dubbi sulle idee del Governo hanno trovato conferma nella quasi contemporanea intervista di Gualtieri al Foglio. Il Ministro, quando rimarca che “c’è un aspetto importante e positivo nel modo in cui funziona questo Recovery fund: cioè i soldi saranno anticipati dai singoli paesi e se l’obiettivo non è stato raggiunto i fondi europei non arrivano. E io penso che tutto il paese nei prossimi mesi sarà lì a dire: mi raccomando, bisogna rispettare la scadenza”, abbiamo l’impressione che segni un clamoroso autogol. Ci conferma che il sostegno finanziario della UE arriverà molto tardi – non è una novità per chi conosce il tempo che passa tra impegno di una spesa e suo effettivo pagamento – ed esporrà il nostro Paese ad un ricatto perenne da parte della Commissione. Basti pensare a quei 3 mesi di “discussione esaustiva” a livello di Consiglio prima di sbloccare i pagamenti, qualora anche solo uno Stato membro abbia perplessità sul rispetto delle condizioni da parte dello Stato beneficiario.
Sorvoliamo sullo “spazio fiscale” che si genererà, a detta del ministro, per effetto delle riforme e sull’asserita assenza di progressività della flat tax – quando ci sono montagne di studi che spiegano come si può ottenerla – e sottolineamo l’enfasi su ”l’Unione europea emetterà 750 miliardi più i miliardi Sure, dunque mille miliardi di Eurobond che saranno utilizzati per finanziare spese comuni […] In questo senso, potremo forse rendere strutturale questa nuova modalità di funzionamento dell’Unione europea, non limitando il tutto agli effetti della pandemia. È questo il sogno”. Peccato che tale sogno rischi di restare tale perché, proprio l’ultima slide delle linee guida, riporta testualmente che:
- Il Programma dovrà essere compatibile con gli obiettivi di finanza pubblica del Governo.
- In ogni caso, la riduzione del rapporto debito/PIL richiederà un significativo miglioramento del saldo primario di bilancio nei prossimi anni.
- Da un punto di vista contabile, i sussidi previsti dalla RRF non dovrebbero costituire maggior deficit e debito lordo della PA
- Viceversa, i prestiti contribuiranno all’indebitamento netto e all’accumulo di debito lordo. Il principale beneficio deriverà dal minor tasso pagato sui prestiti.
Il punto 1 ci dice chiaramente che non ci si può indebitare “ad libitum” con la UE, proprio considerando che la maggior parte dell’assistenza finanziaria in arrivo da Bruxelles è composta da prestiti (Rrf fino a 127 miliardi, Sure 28 miliardi e, molto probabilmente, Mes 36 miliardi) che, pur avendo tassi relativamente bassi, dovranno comunque essere rimborsati. Per non parlare dei maggiori contributi o tasse che comunque dovremo versare dopo il 2028 per rimborsare i sussidi. Andrà quindi trovato un equilibrio tra questi debiti ed il deficit che sarà consentito al nostro governo. Decisivo, a questo fine, sarà capire quanta spesa già compresa nella legislazione vigente e di conseguenza nel deficit già autorizzato, sarà finanziabile con questo nuovo strumento. Se, come temiamo, nei saldi tendenziali (ovvero a legislazione vigente) ci sono poche misure che rientrano nel perimetro delle spese ammissibili delineato da Bruxelles, allora il governo dovrà necessariamente varare nuove leggi di spesa, aumentando così il deficit previsto, che sarà così finanziato dai prestiti e dai sussidi del Recovery Fund anziché da banali Btp emessi sul mercato. È questa una chiave di volta decisiva, poca evidenziata nelle analisi di questi giorni.
Il punto 2, costituisce l’ipoteca sul futuro del nostro Paese di cui parliamo da mesi. Presto la UE richiederà che il nostro Paese si avvii su un sentiero di rientro del rapporto debito/PIL a colpi di avanzo primario nell’ordine di almeno il 3/4% del PIL annuo. Una “cura greca” i cui effetti nefasti sono già noti. La Commissione fonda il suo positivo giudizio sulla sostenibilità del nostro debito proprio sul conseguimento di tali massicci avanzi primari. Quando apparirà chiaro che tale sentiero sarà impraticabile, la perdita di accesso ai mercati, il ricorso ad uno strumento di assistenza di emergenza come il Mes e l’installazione della Troika a Roma, saranno una catena di eventi conseguenziali ed inevitabili.
Il punto 3 è quello di maggior interesse tra le slide delle linee guida. Poiché la lingua italiana non prevede l’uso casuale del modo condizionale, quel “non dovrebbero costituire maggior deficit e debito” pesa come un macigno e smentisce, una volta per tutte le tesi che le emissioni di titoli della Commissione siano qualcosa di simile a degli Eurobond. Dove, con questo termine, si intende debito garantito in modo solidale da tutti gli Stati membri. Invece no: poiché tale regime di solidarietà è espressamente escluso dai Trattati (articolo 125 TFUE), il debito assunto dalla Ue prevede la responsabilità separata e proporzionale e NON solidale dei singoli Stati (several and not joint liabilities, con le parole di un green paper della Commissione). Ciò significa che ogni Stato risponde per la sua quota parte (in genere proporzionale al PIL, per l’Italia pari al 13% circa) del debito emesso dalla Ue. Da qui discende l’ovvia conseguenza che quella quota parte debba essere appostata nei bilanci dei singoli Stati. Accadde esattamente la stessa cosa per il debito emesso dall’EFSF per finanziare la Grecia durante la crisi 2010-2012 e, per anni, la Banca d’Italia ed il Mef nel Documento di Economia e Finanza (Def, si veda nota 3 della tabella a pagina 2) hanno riportato il debito pubblico sempre al lordo ed al netto dei “sostegni” pari a circa 60 miliardi.
È quindi comprensibile e quasi doveroso l’uso del condizionale in considerazione di quanto già accaduto nel 2011 ed oggetto di numerose polemiche. Non a caso, dal 2012 EFSF fu sostituito dal Mes, il cui debito fu emesso facendo leva sul capitale versato e versabile a prima richiesta da parte degli Stati membri, con un evidente minor coinvolgimento diretto del loro livello di debito pubblico. Riteniamo che, anche in questo caso, Eurostat dovrà esprimersi per emettere specifiche regole di contabilizzazione.
Al punto 4, abbiamo invece la conferma che, per quanto riguarda i prestiti ricevuti dalla UE, non esistono dubbi. Concorreranno al calcolo del debito pubblico. E questo deve farci riflettere, una volta di più, sul fatto che il denaro in arrivo da Bruxelles non crescerà come gli zecchini d’oro nel campo dei miracoli.
A quelli credette solo Pinocchio, e nemmeno così a lungo.