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Pensioni

Pensioni, chi e come vuole scongiurare il ritorno alla Legge Fornero

Tutte le ipotesi di riforma delle pensioni per evitare il ritorno della legge Fornero. E che cosa ha detto Meloni in Parlamento sul tema

 

Uno dei primi dossier sul tavolo del prossimo Governo sarà la riforma delle pensioni. L’idea della maggioranza di centrodestra, che quasi sicuramente esprimerà il prossimo governo, è quella di scongiurare il ritorno della legge Fornero in versione integrale dal prossimo 1° gennaio 2023, senza, però, infliggere un colpo ai conti dello Stato.

Ma dalle parole di ieri del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, durante le dichiarazioni programmatiche in Parlamento, le modifiche radicali evocate in particolare dalla Lega sembrano attenuate.

I ridotti spazi di finanza pubblica impongono al governo di ripartire per il 2023 dal prolungamento degli strumenti in scadenza a fine anno come Ape sociale e Opzione donna, ha detto Meloni nel suo discorso.

Resta da capire il destino di Quota 102 che la Lega vorrebbe modulare in Quota 41 agganciata al requisito anagrafico di 61 (o 62 anni). «Intendiamo facilitare la flessibilità in uscita con meccanismi compatibili con la tenuta del sistema previdenziale», ha detto il premier aggiungendo che la priorità per il futuro è la “copertura pensionistica” delle giovani generazioni.

Ecco numeri, progetti e scenari

LE PENSIONI COSTANO 312 MILIARDI DI EURO

Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’INPS i trattamenti previdenziali assorbono il 92% della spesa dell’Istituto mentre quelli assistenziali il restante 8%. Nel 2021 il nostro paese ha speso 312 miliardi per le pensioni. Tali cifre fanno ben capire come ogni ipotesi di riforma deve rispettare i requisiti di compatibilità dei costi con il bilancio pubblico che, come è emerso dalla Nadef Draghi-Franco risulta in netto peggioramento. A pesare, per circa 23,5 miliardi, sono le indicizzazioni degli assegni pensionistici dovute all’inflazione.

LE QUATTRO IPOTESI AL VAGLIO DELLA NUOVA MAGGIORANZA

Sul tavolo della maggioranza sono presenti quattro ipotesi: rilancio di Quota 41 con un ancoraggio alla variabile anagrafica; flessibilità in uscita con penalizzazioni dell’assegno pensionistico; istituzionalizzazione di Opzione donna e l’estensione anche agli uomini; proroga di Opzione donna e Ape sociale. Tutte le ipotesi dovranno tenere conto degli stretti spazi di finanza pubblica, ridotti dall’impennata della spesa previdenziale del 7,9% attesa il prossimo anno, a causa soprattutto della corsa dell’inflazione. Il presidente dell’INPS Pasquale Tridico ha ricordato che nel 2021 l’Istituto ha speso 365 miliardi per pensioni e assistenza.

RIFORMA DI QUOTA 41

La prima ipotesi in ballo è il rilancio di una versione riformata di Quota 41, la politica previdenziale di punta della Lega. La riforma dovrebbe riguardare l’introduzione di una soglia anagrafica per ridurre i costi della misura, stimati in almeno 4 miliardi già il primo anno. Questa versione non piace affatto alla Lega che, con il responsabile lavoro Claudio Durigon, ha fatto capire che la priorità è il pensionamento con 41 anni di versamenti a prescindere dall’età. Il presidente dell’INPS Pasquale Tridico, nell’ultima relazione annuale, ha presentato una stima dei costi della misura: senza la soglia di età, il costo per il primo anno sarebbe di 5 miliardi, e crescerebbe fino a 9 miliardi nel 2029. Tale riforma incontra il favore di Cgil, Cisl e Uil, perché rispecchia la loro piattaforma che prevede la flessibilità in uscita a partire dai 62 anni di età oppure i 41 anni di contributi e la pensione di garanzia per i giovani.

IN PENSIONE A 62 ANNI CON 35 ANNI DI CONTRIBUTI

La seconda ipotesi prevede che un lavoratore possa uscire dal mercato al ricorrere di due condizioni: 62 anni di età e 35 di contributi. Tale alternativa vedrebbe penalizzata la quota retributiva (fino a un massimo dell’8%) sotto il limite dei 66 anni mentre sopra scatterebbero dei “premi”. Tale proposta era stata formulata la scorsa legislatura in Commissione Lavoro alla Camera da Walter Rizzetto di Fratelli d’Italia. Anche in questo caso l’esponente di FdI ha ribadito come sia necessario valutare l’impatto di questa misura sui conti pubblici.

OPZIONE DONNE E OPZIONE UOMO (I SINDACATI SONO CONTRARI)

La configurazione in forma permanente di Opzione donna è la terza alternativa in campo. La misura prevede due condizioni: requisito anagrafico, con 58 anni d’età per le lavoratrici dipendenti e 59 per quelle autonome, al quale si aggiungono 35 di contribuzione. L’assegno pensionistico sarebbe ricalcolato con una conseguente riduzione media dell’importo del 20-25%. La proposta è di estendere tale misura anche agli uomini (da qui “Opzione uomo“) ma partendo da una soglia anagrafica più alta: tra 60 e 62 anni. “Mandare in pensione le persone riducendogli l’assegno – dice il segretario della CGIL Landini – non mi pare sia una grande strada percorribile. Credo che il tema sia quello di affrontare la complessità del sistema pensionistico”. Sulla stessa lunghezza d’onda Luigi Sbarra della Cisl. “La Cisl non può accettare l’idea che sulla flessibilità si continui a pensare a nuove e robuste penalizzazioni a carico dei lavoratori, con ulteriori riduzioni percentuali dell’assegno – dice il segretario della CISL -, come se non bastassero quelle subite in occasione delle passate riforme che hanno già pesantemente inciso sul valore delle prestazioni”. Tale riforma sembra, invece, incontrare il favore del Presidente dell’INPS. “Credo che tutte queste riforme siano orientate a un principio giusto, ovvero quello di garantire una certa flessibilità in uscita rimanendo ancorati tuttavia al modello contributivo”. Tridico però mette in chiaro che se la flessibilità dovesse tradursi in una penalizzazione eccessiva dell’assegno le adesioni sarebbero basse. “Rispetto alla platea, l’Opzione donna ha avuto un tiraggio del 25%, un dato che dimostra che la scelta è stata fatta da meno di un terzo delle donne. Tutti sanno che col modello contributivo, se si va in pensione prima, si va con un minore assegno pensionistico”. Per gli uomini la percentuale di adesione potrebbe essere ancora più bassa perché se decidesse di uscire a 58 anni si perderebbe circa il 30% della pensione che si sarebbe maturata uscendo oltre sette anni dopo: secondo alcuni calcoli, si avrebbe a che fare con un primo assegno di pensione pari a circa la metà dell’ultimo stipendio.

PROROGA DI OPZIONE DONNA E APE SOCIALE

L’ultima ipotesi in campo è la proroga immediata di Opzione donna e Ape sociale. Solo dopo un confronto con i sindacati si potrebbe procedere con una riforma più puntuale e articolata delle pensioni che non dovrebbe vedere la luce prima di aprile o luglio (anche per renderle più facilmente compatibili con il sofferente quadro dei conti pubblici del prossimo anno).

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