La vicenda che vede Unicredit pronta a incorporare Banco BPM
ha appena vissuto solo la prima settimana di scaramucce. Ne vedremo certamente ancora tante altre, con un livello di intensità degli eventi probabilmente crescente. Insomma siamo davvero agli inizi di un lungo confronto.
Per ora abbiamo sul tavolo un’offerta pubblica di scambio lanciata da Unicredit all’alba di lunedì 25 novembre che, già dalla prima lettura, aveva tutta l’aria di essere semplicemente irricevibile. Un premio «inusuale» (aggettivo dell’ad di Banco BPM, Giuseppe Castagna), un «prezzo civetta» già da solo dovrebbe essere sufficiente a chiudere la vicenda. Castagna ha anche sottolineato i rischi per i dipendenti – con relativa polemica sulla stima dei circa 6.000 esuberi – e anche evidenziato il cambiamento di posizionamento strategico del futuro gruppo Unicredit-Banco BPM. Infatti chi possiede 100 azioni del Banco, oggi dovrebbe riceverne 17,5 di Unicredit, banca completamente diversa sotto tanti aspetti. A partire dal posizionamento geografico: l’Italia pesa nel gruppo Unicredit per il 45% dei ricavi e del risultato ante imposte, per il 37% dei prestiti, per il 40% dei depositi e per il 43% dei dipendenti. Il resto è diviso tra Germania, Europa centrale e orientale (la somma delle due aree supera quella della Germania) e Russia (5% dei ricavi e dei dipendenti, 7% dei prestiti e 2% dei depositi). L’azionista Banco BPM diventerebbe socio di un’entità con evidenti maggiori rischi geopolitici e, considerata la situazione precaria della Germania, anche tipicamente di business.
Il tutto a un rapporto di concambio (prezzo teorico del Banco a 6,65) ampiamente superato dai prezzi di Borsa già il giorno stesso dell’offerta di scambio e venerdì pari a € 7,20 in chiusura. Anche per questo motivo, non esattamente un buon affare.
Tra le tante letture di questa operazione tuttora in fieri, i commenti che sono arrivati dal governo e dalla maggioranza, tendenzialmente ostili o neutrali, si sono concentrati sulla linea di faglia dell’italianità. Nulla di meno condivisibile. Ciò che interessa al cliente o al depositante della banca è il livello di concorrenza e di concentrazione del mercato. E se Unicredit incorporasse Banco BPM la concentrazione aumenterebbe e il livello di concorrenza diminuirebbe, aumentando il potere contrattuale della banca a detrimento di quello dei clienti. A prescindere dal passaporto dell’azionista di controllo o di riferimento del neonato gruppo.
Il modello di business di Banco BPM verso le Pmi è anni luce lontano da quello di Unicredit, per cultura aziendale e precise scelte strategiche stratificatesi nel tempo. E le PMI – ammesso e non concesso che le grandi imprese siano i clienti ideali di Unicredit – non gioirebbero certamente per questo accorpamento. Le imprese italiane vogliono lavorare con grandi banche, non con banche grandi. Vogliono parlare con persone che vengono a trovarle nei loro stabilimenti, non con algoritmi.
Poi, c’è un altro motivo, ben evidenziato dalle colonne del Financial Times. Dopo l’Opa di Banco BPM sul gestore di risparmio Anima e l’acquisto congiunto del 9% di MPS, l’azionariato di quest’ultima banca ha trovato, con Caltagirone e Del Vecchio, un gruppo di controllo relativamente stabile. In grado di consentire al Tesoro di restare col suo 11% azionista di una banca solida, ben gestita e con favorevoli prospettive di crescita. Insomma, da qualche settimana, dietro Intesa e Unicredit in Italia sembra materializzarsi un terzo polo bancario, molto ben articolato in termini di portafoglio di servizi offerti e di presenza territoriale. Soprattutto in grado di scuotere Mps dal torpore (forzato dalle folli regole UE sugli aiuti di Stato) in cui è costretta dal 2017.
E tutto ciò non può che fare bene al mercato, inteso come consumatori e aziende.
Poteva il secondo attore di questo mercato restare inerte di fronte a questa ricomposizione degli equilibri strategici? Certamente no. E allora, parole del FT, ha lanciato semplicemente un bastone tra le gambe del «terzo polo» per prendere tempo e difendere il proprio posizionamento strategico di fronte ad un concorrente potenzialmente pericoloso. «Quando non puoi prevalere su un concorrente sul mercato, compratelo!» è un vecchio insegnamento sempre valido. Allora, come un giocatore di scacchi, Andrea Orcel è entrato nella partita, al momento per solo per giocarla o meglio, impedire ai concorrenti di giocarla, con un’offerta che il Ft stesso definisce di «improbabile successo», ma utile per avere spazio di manovra.
Invece le «curve» si sono immediatamente posizionate a tessere le lodi del mercato e di Orcel che disbosca la foresta pietrificata. Evidentemente fanno il tifo per il conto economico di Unicredit, ammesso e non concesso che riesca a incorporare il Banco, e non per quello di famiglie e imprese. Si sono anche schierate contro lo Stato, reo di interferire con le normali dinamiche del mercato.
Purtroppo, la foga ha fatto dimenticare a questi tifosi che lo Stato non è solo un regolatore ma, nello stesso specifico caso, è anche un attore del mercato. Perché detenendo l’11% di Mps è interessato alla valorizzazione della propria partecipazione ed a un assetto azionario stabile e focalizzato sullo sviluppo di Mps. Cosa dovrebbero fare a Palazzo Chigi, legarsi le mani? E Orcel, quando ha messo i bastoni tra le ruote a Castagna – che ora dovrà passare dall’assemblea straordinaria per ogni mossa modificativa della sua strategia su Anima e Mps – queste cose le sapeva bene. Se, nonostante tutto, ha deciso di sparigliare i giochi, non può poi lamentarsi, o incaricare le sue truppe mediatiche di farlo, quando il concorrente (pubblico) reagisce, accusandolo di interferenze col mercato. È il mercato bellezza, anche quando partecipa lo Stato!