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Bonomi

Noterelle sulla “democrazia negoziale” di Carlo Bonomi

La concertazione non può essere riproposta sotto forma di "democrazia negoziale" per giustificare un patto dei produttori non solo contro un dicastero che non gode la fiducia di Confindustria ma contro la stessa autonomia della politica. Il Bloc Notes di Michele Magno

Nel nostro paese c’è bisogno di una “democrazia negoziale”, costruita e basata su una grande alleanza tra pubblico e privato, ” in cui il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale, ma in cui esso dialoga incessantemente con le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del terzo settore, della ricerca e della cultura”. E’ quanto si legge nella prefazione di Carlo Bonomi al volume collettaneo “Italia 2030. Proposte per lo sviluppo”. Curato da Marcello Messori e edito da La nave di Teseo, è stato presentato al premier Conte a villa Doria Pamphilj il 17 giugno. E proprio la “democrazia negoziale”, più che le ricette antirecessive e le riforme economiche auspicate in quel testo, è l’idea che più ha fatto discutere nei giorni scorsi.

Coniata dal sociologo Carlo Trigilia in un saggio che fa parte del libro, la nuova formula in realtà allude – nemmeno troppo velatamente – alla concertazione dei primi anni Novanta del secolo passato, che vide il suo punto più alto nel protocollo sulla politica dei redditi (luglio 1993) con il governo Ciampi. Allora alle parti sociali fu affidato di fatto un ruolo di supplenza, con i partiti travolti da Tangentopoli. Come ha osservato Roberto Mania (la Repubblica, 18 giugno), Bonomi punta a rilanciare quell’esperienza. Probabilmente scommette sulla debolezza di un esecutivo litigioso e incapace di scelte strategiche, il cui azionista di maggioranza è per di più animato da un sentimento ostile alle imprese. Con un fatturato industriale in picchiata, Viale dell’Astronomia vuole quindi giocare le sue carte senza la mediazione delle lobby partitiche nelle sedi in cui si decidono l’utilizzo e la ripartizione delle risorse europee. Ma è un progetto che ha qualche chance di successo?

Cominciamo col ricordare che la concertazione designa un sistema, in verità tutt’altro che univoco e omogeneo, di accordi trilaterali tra poteri pubblici, sindacati e associazioni imprenditoriali. Si tratta del modello “neocorporativo” largamente sperimentato nelle socialdemocrazie nordiche. Che si chiami concertazione o neocorporativismo, la sostanza però non cambia. Da noi vede la luce con la “svolta dell’Eur” del 1978. Era l’epoca della solidarietà nazionale. I sindacati confederali accettano di moderare le richieste salariali, il monocolore Andreotti promette le riforme di struttura.

Questo schema di “scambio politico” (la definizione è di Alessandro Pizzorno) ha segnato, con alterne fortune e in forme diverse, la storia delle relazioni industriali in Italia negli ultimi quarant’anni. Infatti, dopo il “lodo Scotti” (dal nome del ministro del Lavoro del governo Fanfani, gennaio 1983), il metodo della della concertazione è stato contestato dal governo Craxi (1984), declassato a innocuo dialogo sociale con i governi Berlusconi (2002 e 2009), retrocesso a mero rito consultivo dal governo Monti (2012), considerato una perdita di tempo dal governo Renzi (2014). Al contrario, pur con esiti altalenanti, è stato centrale -oltre che nel già citato governo Ciampi- nei governi Amato (1992), D’Alema (1998) e Prodi (2007).

Sulla concertazione, inoltre, è stato detto tutto e il contrario di tutto. Liberali e sinistra radicale ne hanno sempre confutato logica e finalità. Per i primi mette in discussione il primato delle assemblee elettive. Per la seconda costituisce comunque una forma di “democrazia autoritaria”, che mira a ingabbiare il conflitto sociale in un quadro di vincoli e di compatibilità a danno dei lavoratori. A queste critiche i sostenitori della concertazione hanno replicato che i canali tradizionali della rappresentanza politica non sono -da soli- in grado di governare una società complessa; e che il Parlamento rimane pienamente legittimato, poiché in ogni caso spetta a lui pronunciarsi e valutare in ultima istanza i contenuti delle intese triangolari.

Oggi, tuttavia, lo Stato nazionale non ha più l’assoluto controllo della politica fiscale. E per il sindacato il problema non è più quello di farsi carico di una parte di sacrifici necessari a riportare in carreggiata il meccanismo di accumulazione, ma l’assoluta aleatorietà delle contropartite. Anche per queste ragioni, è difficile un revival della “democrazia negoziale” che non si riduca a una pantomima delle liturgie che, ben più incisivamente, avevano connotato la stagione dell’inflazione programmata, frutto di un’intuizione di Ezio Tarantelli. Del resto, lo stesso ideologo del neocorporativismo, lo studioso americano Philippe C. Schmitter, aveva pronosticato che la scarsità dei beni da distribuire avrebbe indotto non i leader sindacali, ma gli imprenditori ad affossare la concertazione.

Tuttavia, essa forse potrebbe avere ancora un senso se servisse a semplificare il processo decisionale e, anzitutto, se accogliesse l’invito del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, a unire le energie più vitali del mondo del lavoro e dell’imprenditoria in un grande sforzo collettivo per incrementare l’efficienza e la produttività dell’economia italiana.

Purtroppo, la concertazione è stata afflitta da un sovraccarico di lungaggini e bizantinismi procedurali che hanno confermato fin qui le perplessità dei suoi critici più severi. Perché, quando in una democrazia i voti vengono contati ma gli interessi vengono pesati, rischia di essere violato il fondamentale principio del “one man one vote and the most votes win” (una persona un voto, e il maggior numero di voti vince). La concertazione ha funzionato ed è stata utile in un momento di emergenza finanziaria e in cui i prezzi erano alle stelle, ma non può essere riproposta artificiosamente per giustificare un patto dei produttori non solo contro un dicastero che non gode la fiducia di Confindustria, ma contro la stessa autonomia della politica.

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