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Spread Recovery Fund

Vi spiego perché i mercati non premiano l’Italia giallo-verde

Il Diario di Gianfranco Polillo tra politica e mercati

Ormai sembra un bollettino di guerra, con spread in continuo rialzo e Borsa in caduta libera, specie nel comparto bancario: il ventre molle del nostro sistema finanziario. Ma ancora non si vede una linea del Piave. Una retrovia lungo la quale organizzare la necessaria resistenza per evitare il default. Sempre che sia possibile. Ma per riorganizzare un esercito, che sembra essere sempre più allo sbando, ci vorrebbero altri generali, come avvenne in quel lontano 1918, con Armando Diaz che sostituì Luigi Cadorna. O almeno sarebbe necessario neutralizzare i più visionari. Coloro che giocano ad interpretare le gesta di David contro il perfido Golia.

Bisogna mettersi in testa che l’Italia non è in condizioni di sostenere uno scontro così prolungato. Né si può pensare che, alla fine, Mario Draghi risolva tutto con il tocco di una bacchetta magica. Il “whatever it takes” è stato forse un episodio irripetibile. Aveva dalla sua uno schieramento politico che oggi non solo non si vede all’orizzonte, ma che, nel caso italiano, sembra essere orientato in tutt’altra direzione. Ed allora: meglio fermarsi. Evitando innanzitutto nuove polemiche, che non risolvono ma inaspriscono ulteriormente la tensione.

La polemica politica va bene. Ma evitiamo di mescolare tutto in un’unica invettiva. I mercati non hanno nel loro Dna progetti politici. Si limitano a fare il loro mestiere. Comprano titoli ed azioni se credono di fare un affare. Li vendono se, agendo in questo modo, possono limitare le perdite future. Hanno come obiettivo quello di acquistare a prezzo di saldo le imprese italiane, come pure è stato detto? Ma questo presuppone un unico centro di direzione politica, capace di muovere le truppe e poi conquistare definitivamente le posizioni. L’esatto contrario di quella che è la realtà del mercato finanziario: costituito da migliaia di operatori. Ciascuno dei quali è in concorrenza con il proprio vicino, per assicurarsi un maggior ritorno sul capitale investito.

Naturalmente le loro valutazioni possono convergere e quindi produrre un effetto leva, come sembra stia avvenendo in queste ultime settimane. Ma a motivare simili comportamenti sono i dati della realtà italiana. Dieci anni di recessione, quali quelli che sono alle nostre spalle, con ferite ancora aperte (un Pil ancora inferiore di 6/7 punti rispetto al 2007), che si tenta di superare con una grande operazione di redistribuzione del reddito. E non spingendo al massimo una politica di sviluppo.

Nel panorama non solo europeo l’eccentricità di questa impostazione è evidente. Si dice che Spagna, Portogallo e Francia per anni non abbiano rispettato non il Fiscal compact, ma lo stesso Trattato di Maastricht. Con un deficit di bilancio superiore al 3 per cento. Giusta osservazione. Se le controdeduzioni non fossero offerte dalla diversa dinamica del Pil. Dal 2007 la loro crescita media annua è stata positiva, anche se inferiore alla media dell’Eurozona. Ma quella italiana addirittura negativa. Mentre negli ultimi cinque anni l’hanno approssimata o addirittura superata (Spagna) mentre quella italiana è stata meno della metà.

Avremmo quindi dovuto seguire la strada dei Paesi più virtuosi. La Spagna, ad esempio, nel 2008 aveva un deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti pari al 9 per cento del Pil, ma che in dieci anni, grazie ad un grande sforzo collettivo, lo ha trasformato in un surplus dell’1,2 per cento. Riflesso soprattutto di un tasso di crescita media, negli ultimi anni, pari a quasi il 3 per cento. E non si può certo dire che i nuovi movimenti politici – da Ciudadanos a Podemos – non abbiano dato il loro contributo. Qui è la profonda differenza con l’Italia. Da una parte l’impegno. Da noi una manovra che, ben che vada, secondo le parole di Federico Signorini, vice direttore generale di Banca d’Italia – ma non ci voleva molto – avrà un impatto “modesto e graduale”.

La verità è che dopo Roma e Torino e forse Genova, se la partita con Autostrade dovesse complicarsi, si rischia di replicare il disastro, derivante da un’incapacità di governo più volte dimostrata, a livello nazionale. Ma in questo caso non si perderà solo la partita delle Olimpiadi, com’è avvenuto per la Capitale e il capoluogo piemontese, ma si ipotecherebbe direttamente l’intero futuro della Nazione.

Naturalmente comprendiamo la posizione della Lega. Si trova tra l’incudine ed il martello. Deve garantire la stabilità politica del Paese e già questo è un obiettivo. Ma se ad esso non corrisponde una capacità minima di governo, allora è del tutto inutile. Rischia soltanto di essere trascinata in un disastro che avrebbe potuto evitare non lasciando mano libera ai teorici dell’assistenzialismo, ma lottando, con maggior determinazione, per il suo programma originario. Quella riforma del sistema fiscale italiano che rappresenterà anche una scommessa, ma che è anche l’unica possibile nel tentativo di recuperare il tempo perduto.

Del resto basta guardare oltre Atlantico. Donald Trump avrà tutti i difetti di questo mondo, ma non si può dire che, con il suo intervento sul fisco, non abbia contribuito al rilancio dell’economia americana. In una fase in cui lo stesso rialzo dei tassi d’interessi, deciso dalla Fed, non fa altro che anticipare quanto potrebbe accadere in Europa con la fine del quantitative easing. Per l’Italia un colpo finale.

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