Dispiace doverlo ammetterlo, ma il lessico di Maurizio Landini non ha molto a che vedere con la storia più recente del sindacalismo italiano. Parole come “è arrivato il momento di una vera rivolta sociale, avanti così non si può più andare” oppure “noi vogliamo rivoltare come un guanto questo paese” appartengono ad un’altra epoca. Non le abbiamo mai sentite in bocca a Giuseppe Di Vittorio, a Luciano Lama o allo stesso Bruno Trentin. Del primo leader storico della CGIL ricordiamo invece l’impegno profuso nel “Piano del lavoro” (non quello del 2013, ma quello del 1949/50), quella grande iniziativa politica con al centro un’altra idea dello sviluppo economico e sociale, rispetto ai moduli di una ricostruzione post-bellica che fu soprattutto restaurazione antifascista liberista, per riprendere le parole di Ester Fano Damascelli.
Quanto a Luciano Lama, basti pensare alla complessa vicenda della “scala mobile” italiana. Quell’accordo realizzato con il Capo di allora della Confindustria, che rispondeva al nome di Gianni Agnelli. La scelta del cosiddetto “punto unico”, quale parametro di copertura dall’inflazione, garantiva un ristoro superiore al 100 per cento per i redditi più bassi. Determinando, così, una crescente redistribuzione del reddito a favore delle classi meno abbienti. Una creatura che lo stesso Lama cessò di amare quando si raggiunse il limite. Ed il mantenimento di quelle proporzioni rischiava da un lato di contribuire all’ulteriore sviluppo dell’inflazione; dall’altro di determinare un appiattimento retributivo destinato sempre più ad isolare la stessa classe operaia, dalle altre forze sociali (vedi manifestazione dei 40 mila). Quando il Governo, presieduto da Bettino Craxi, con un apposito decreto legge cercò di raffreddare il meccanismo, in cuor suo non si oppose. Ma fu costretto a chinare il capo di fronte alla presa di posizione di Enrico Berlinguer a nome della maggioranza del suo partito.
Non meno emblematica la figura di Bruno Trentin. Quel sindacalista mezzo italiano e mezzo francese. Inviso agli apparti repressivi di entrambi i Paesi, negli anni bui del periodo fascista. Partigiano, intellettuale, ma soprattutto lucido osservatore delle trasformazioni storiche del capitalismo italiano. Quel mutar pelle delle grandi strutture industriali a seguito dell’innovazione tecnologica destinata a trasformare anche la vecchia figura operaia. Sempre meno artigiano, sempre più appendice della macchina, come aveva intuito il vecchio Marx nei suoi Grundrisse. Per senso di responsabilità, nel vortice della crisi del 1992, siglò l’accordo che mise fine al meccanismo di scala mobile e diede avvio alla politica dei redditi. Ma subito dopo si dimise da segretario generale della CGIL, vedendo in quel gesto anche una sua sconfitta personale.
Rispetto a quelle figure Maurizio Landini è altro. Somiglia molto di più a Nicola Bombacci, il sindacalista emiliano dalla vita spericolata. Un’intera esistenza spesa tra il sindacato ed il Partito socialista di allora, mentre intorno a lui esplodeva la Grande guerra. Conquistò i vertici del partito nel 1919, vincendo il congresso, per poi essere eletto deputato con oltre 100 mila voti di preferenza, divenendo così la figura più rappresentativa della corrente massimalista. Di quel gruppo destinato a svolgere un ruolo cruciale durante il cosiddetto “biennio rosso”. Il cui tentativo fu quello fare come i Russia. Dando vita a quei “soviet” ch’erano divenuti una sua ossessione, destinata alla fine a costargli la carica di segretario.
Lo si ritroverà insieme ad Antonio Gramsci ed Amadeo Bordiga al XVII Congresso del PSI di Livorno. Quello della scissione e della nascita del PCd’I. Nel nuovo partito non parteciperà né al gruppo ordinovista, né agli astensionisti di Bordiga. Rieletto in Parlamento, divenne il segretario del Gruppo, ma durò poco. Fu costretto alle dimissioni per aver vagheggiato una possibile unione tra le due rivoluzioni: quella sovietica e quella fascista. Teoria per la verità funzionale agli interessi di Mosca, che aveva proposto all’Italia un trattato economico tra le due Nazioni. Tant’è che, al termine del mandato parlamentare, iniziò a lavorare proprio per l’Ambasciata russa in Italia. Dove vi rimase fino al 1927, epoca della sua definitiva espulsione dal Partito per “indegnità politica” come scrisse l’Unità clandestina di quegli anni.
Sarà da allora una lunga eclisse che lo porterà progressivamente nelle fila del fascismo, approfittando del fatto che, in gioventù era stato, compagno di scuola di Benito Mussolini. La completa adesione si verificò nel 1935. Ma fu fedeltà al “mussolinismo” più che al fascismo. Gli incarichi gli furono offerti direttamente dal Duce, sollevando non pochi malumori all’interno dello stesso partito. Direttore de “La Verità” – il giornale che nel titolo evocava La Pravda – si avvalse della collaborazione di numerosi socialisti, tra i quali Arturo Labriola, altro socialista dalla vita avventurosa, sempre in bilico tra socialismo, fascismo e comunismo. Morì tragicamente, così com’era vissuto, catturato dai partigiani e fucilato per essere divenuto uno dei principali esponenti della Repubblica di Salò, al seguito del suo ex compagno di scuola.
Nell’albo genealogico del sindacalismo italiano non è difficile indicare a quale ideal-tipo si avvicina maggiormente la figura di Maurizio Landini. E non solo per la foga dei suoi discorsi. Ma per l’impronta che sta cercando di dare all’organizzazione di cui è il massimo esponente. Qual è oggi la linea prevalente nella CGIL? Più la protesta che non la contrattazione. Tante manifestazioni di piazza, pochi contratti firmati. Tante accuse nei confronti del Governo, poche azioni condotte nei confronti della propria controparte padronale, per strappare miglioramenti retributivi o migliori condizioni di lavoro. Ovviamente protestare è più facile che trattare. E poi in Italia, forse, è più difficile che altrove. Tuttavia le difficoltà non dovrebbero scoraggiare, ma semmai aguzzare l’ingegno.
Nel documento predisposto dalla ETUC (European Trade Union Confederation) sono contenute alcune pagine che andrebbero attentamente meditate. “Numerose analisi – è scritto nel documento – confermano che il capitale rispetto ai lavoratori ha beneficato in misura maggiore dei guadagni legati alla più elevata produttività” (pag. 8). Per il secondo anno consecutivo i dividendi di capitale sono aumentati del 95% in Austria, del 75% in Portogallo, del 66% in Danimarca, del 33% in Spagna, del 13% in Francia del 10% in Germania e del 9% in Italia. I tutti questi Paesi i salari nominali sono invece cresciuti da un massimo dell’8% (Austria) ad un minimo del 4% per cento (Italia).
Questi dati – è bene insistere – sono forniti dall’organizzazione europea dei sindacati: che come tale partecipa al semestre europeo. I salari italiani sono quelli cresciuti di meno (2 punti sotto la media europea). Quindi i lavoratori hanno ragione di protestare. Ma anche i dividendi sono cresciuti poco, rispetto agli altri Paesi: anch’essi al di sotto delle medie europee. Quindi? La spiegazione è relativamente semplice: l’Italia ha un problema in più. Cresce meno e quindi tutto ristagna: profitti e salari. Ma quale sono le cause? Mancanza di risorse? Dabbenaggine dei Governanti?
La spiegazione è, al tempo stesso, più semplice e più complessa. Utilizziamo male le risorse che abbiamo. Altrimenti non si spiega il fatto che, nel primo semestre dell’anno, ben 225 miliardi di euro di risparmio hanno preso la via dell’estero, come denunciato recentemente dal Presidente Sergio Mattarella. Quando nel Paese mancano parecchie cose, a partire da livelli salari troppo bassi. In un altro momento, questo squilibrio, sintono di una domanda interna troppo contenuta rispetto al potenziale di offerta complessiva, sarebbe stato risolto da un maggior tiraggio della spesa pubblica. Quest’ultima sarebbe potuta aumentare fino a pareggiare le partite correnti della bilancia dei pagamenti, il cui surplus è all’origine della formazione di quel risparmio poi affidato alle cure dell’estero.
Sennonché oggi, dati i vincoli accresciuti del Patto di stabilità, questo non è più possibile. Il riequilibrio può avvenire solo dall’aumento degli investimenti (che tuttavia richiedono una tenuta della domanda, vedi Stellantis) e della massa salariale (più occupazione e maggiori retribuzioni). C’è quindi uno spazio maggiore per quel sindacato che non protesta, ma è capace di contrattare. Per un nuovo Di Vittorio, capace di progettare dal basso un intervento di tipo keynesiano, a seguito del venir meno della spinta derivante dalla globalizzazione. Il fenomeno che, come avrebbe detto Rosa Luxemburg, ha consentito in questi ultimi anni di ritardare l’emergere di molte contraddizioni. Oggi venute al pettine.