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Vi spiego come si compone davvero la manovra del governo

L'analisi dell'editorialista Gianfranco Polillo sulla manovra che emerge dalla Nota di aggiornamento al Def approvata dal governo Conte

L’intervista di Giovanni Tria, su Il Sole 24 Ore, e l’articolo di Paolo Savona sul Il Fatto quotidiano hanno avuto il pregio di chiarire meglio i possibili effetti della manovra sul quadro macroeconomico e sugli assetti di finanza pubblica. Peccato che siano intervenuti fuori tempo massimo. Una regia più accurata, nei giorni passati, avrebbe impedito il tracollo di Borsa e la risalita degli spread, contribuendo a rasserenare i mercati.

E’ invece andata in onda a rete (quasi) unificata una specie di psicodramma in cui i diversi protagonisti, insensibili ai moniti di Mario Draghi, hanno fatto di tutto per dare l’immagine di un Paese in cui il semplice buon senso era divenuto merce rara. Ed il mercato non ha potuto che punire questi eccessi a beneficio di coloro che avevano venduto allo scoperto. Per poi ricoprirsi nella seduta odierna.

Dilettanti allo sbaraglio. Ancora una volta. Basti guardare alla seconda ed ancor più grave pantomima che riguarda la ricostruzione del ponte di Genova. Il massimo dell’aberrazione, se così si può dire, è stato quello di concentrarsi su un numero – il 2,4 per cento di deficit – come se si fosse sulla linea del Piave. Con i 5 stelle a brindare della presunta vittoria conseguita e il ministro dell’Economia costretto a battere in una presunta ritirata, con il suo piccolo esercito di tecnici del Tesoro. Sempre più visti come un manipolo di sabotatori, che vorrebbero impedire ogni possibile cambiamento.

L’aver stressato ogni oltre misura il significato di questo parametro ha fatto perdere di vista la dinamica degli elementi ben più significativi della situazione finanziaria italiana. Soprattutto la consapevolezza che, nonostante, il maggior deficit, il rapporto debito-Pil non aumenterà, ma continuerà a scendere seppure più lentamente.

Nel day after, Giovanni Tria, ha cercato di correggere il tiro, con una previsione fin troppo timida. Una riduzione di circa 1 punto all’anno. Che sarà tale, ma solo nel caso in cui il deficit dovesse ulteriormente salire. A bocce ferme, tenendo conto cioè delle previsioni contenute nel Def, elaborato da Gentiloni e Padoan, i risultati dovrebbero essere notevolmente migliori.

Tanto rumore per nulla, allora? Purtroppo non è così. L’obiettivo era distrarre mass media (operazione riuscita) ed opinione pubblica dalla cattiva qualità dell’intera manovra. Soprattutto dagli aspetti più controversi che riguardano – quasi inutile dirlo – il salario di cittadinanza. Non perché non sia giusto garantire e stimolare chi è rimasto senza lavoro. Ma perché questa foglia di fico tenta solo di nascondere una misura puramente assistenziale. Motivata, come nel caso degli 80 euro di Matteo Renzi, da prevalenti esigenze elettoralistiche.

E’ infatti evidente, come previsto dallo stesso programma elettorale dei 5 stelle, che la variabile strategica del progetto ipotizzato è l’esistenza di centri impiego in grado di controllare i tanti “furbetti del quartierino”. Coloro cioè che prenderanno l’indennizzo di 780 euro mensili, per rimanere appollaiati sul divano. O, peggio ancora, darsi al lavoro nero. Ipotesi corroborata dal fatto che, attualmente, i centri impiego dipendono dalle regioni. E francamente, dopo l’esperienza delle LSU (lavori socialmente utili) non crediamo che, specialmente, nel Mezzogiorno sussistano strutture tali a garantire la necessaria trasparenza. Altro che “onestà, onestà, onestà”.

Del resto quei 10 miliardi stanziati non sono in grado di garantire il successo nella lotta contro la povertà. Visto che sono appena sufficienti per dare quel sussidio a poco più di 1 milione di persone, rispetto ai 5 censiti. Andranno quindi, salvo aumentare gli stanziamenti, solo a vantaggio di alcuni. Con esclusione di qualsiasi possibile automatismo: cosa che rende ancora più problematica ogni possibile selezione. Senza contare, infine, che non è chiaro se su questo tesoretto graverà anche l’onere per le pensioni di cittadinanza. Nel qual caso il perimetro sarebbe ancora più ristretto. In definitiva: le nozze con i fichi secchi.

Visto ch’era giusto “sforare” – almeno questa è stata sempre la nostra idea in vista di una modifica del Fiscal compact – forse le risorse così ottenute potevano essere utilizzate diversamente ed in modo più proficuo.

Nei prossimi tre anni l’ammontare dei titoli di Stato che il Tesoro dovrà emettere, per far fronte al maggior deficit, sarà pari a circa 125 miliardi. L’equivalente di circa il 75 per cento del gettito totale dell’Irpef (dati 2016). Cifra che dà l’idea di quante cose buone si potevano fare, specie sul fronte della riforma fiscale, per rilanciare quello sviluppo che è il vero antidoto contro una povertà diffusa.

Se invece si esaminano, sulla scorta delle indiscrezioni circolate, i dati relativi al solo 2019 si può comprendere quanto la manovra sia minimalista e quanto poco influente ai fini di una maggiore crescita, nonostante i buoni propositi enunciati.

Il Pil che dovrebbe passare da uno 0,9 (legislazione vigente) ad un 1,6 per cento. Lo sforamento comporterà una disponibilità di maggiori risorse pari a circa 30 miliardi. Contro i 40 di maggiori spese previste. Restano quindi da trovare circa 10 miliardi (altri dicono 13). Nel conteggio non è calcolato l’onere per le pensioni di cittadinanza, sempre che non gravino su altri tesoretti. Né le maggiori entrate derivanti dal condono fiscale. Forse termine improprio per definirlo, ma l’importante è capirsi. Supponiamo allora che le due poste abbiano, più o meno, la stessa consistenza e quindi il saldo rimanga immutato.

Come sono utilizzati i 40 miliardi ipotizzati? Per il 50 per cento vanno a coprire spese indifferibili (scongiurare l’aumento dell’Iva, maggiori interessi, spese obbligatorie), il resto è suddiviso tra i temi cari alla Lega ed ai 5 stelle. Con questi ultimi che fanno la parte del leone: 15 miliardi, senza contare le pensioni di cittadinanza, servono per il salario di cittadinanza, il fondo per le vittime bancarie, e la riforma della Legge Fornero (fifty-fifty con la Lega).

Matteo Salvini porta a casa, invece, la riduzione d’imposta per le partite Iva e per le imprese che investono (Ires), più la quota di competenza della riforma della legge Fornero. Totale 6 miliardi. Cui in larga misura si provvede con le maggiori entrate del condono. Che saranno pure una-tantum. Ma intanto fanno gioco. Dicono le cronache che, in privato, abbia mostrato più di una perplessità. Gli si può forse dare torto?

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