Luigi Di Maio si è subito ingolosito della proposta di Emmanuel Macron. Se la Francia è intenzionata a portare il rapporto deficit-Pil al 2,8 per cento, perché l’Italia dovrebbe essere da meno? Siamo forse figli dell’oca nera? Qualche ragione, per la verità, esiste nel rimarcare le differenze, ma il vice presidente del consiglio italiano snobba gli elementi di dettaglio. Che invece pesano se non proprio come macigni, almeno quel tanto che basta.
COME SI COMPONE LA MANOVRA DI MACRON PER LA CRESCITA
Nel merito, la proposta francese mira alla riduzione del carico fiscale per un importo pari a 24,8 miliardi di euro. Obiettivo: dare tono alla ripresa economica. Il grosso (18,8 miliardi) è a favore delle imprese, mentre i restanti 6 miliardi allevieranno il carico fiscale sulle famiglie. Interessante è osservare il rapporto tra le due cifre: oltre il 75 per cento della manovra è tesa ad ottenere un maggiore sviluppo. La restante parte a catturare un sostegno sociale più ampio. Per dimostrare che un più forte rilancio dell’economia è interesse di tutti. Un interesse immediato che si traduce negli sgravi alle famiglie. Un interesse prospettico, che sarà soddisfatto da una maggiore crescita dell’occupazione e dei salari, se gli obiettivi ipotizzati saranno conseguiti.
L’IMPATTO DELLA MANOVRA FRANCESE SUL DEFICIT DI BILANCIO
Per effetto della manovra il deficit di bilancio per il 2019, rispetto al tendenziale, aumenterà dello 0,2 per cento. In compenso il rapporto debito pubblico – Pil, almeno stando alle previsioni, dovrebbe scendere. Dov’è allora il segreto di quest’equazione? Nel fatto che si ipotizza un tasso di crescita del Pil nominale, che comprende anche l’inflazione, superiore al 2,8 per cento. Quindi il rapporto incrementale tra il maggior deficit e la maggiore ricchezza, nel frattempo, prodotta risulta inferiore all’unità. Per cui il debito, sempre in rapporto al Pil, è destinato a ridursi. Una prima adesione empirica allo schema proposto da Paolo Savona, nel suo documento sull’Europa.
LE DIFFERENZE TRA ITALIA E FRANCIA
C’è poi il diverso orizzonte. La differenza fondamentale che spiega perché la Francia va avanti e l’Italia va indietro è una sola: il suo diverso tasso di crescita dell’economia. Dal 2009, l’anno in cui la crisi ha sprigionato tutta la sua virulenza, al 2017 l’economia francese è cresciuta di oltre il 7 per cento in termini reali. L’Italia ha subito una decrescita (ben poco felice) del 4,3 per cento. Con una differenza relativa di oltre 11 punti che spiega cose che i teorici dell’austerity non vorrebbero mai sentir pronunciare. Spiega ad esempio un deficit di bilancio francese del 50 per cento, in media, superiore a quello italiano. Completamente al di fuori dei parametri di Maastricht, fino al 2016. Ma con un impatto ben più limitato sulla crescita del debito. Che in Francia è passato dall’82,9 al 97 per cento (più 14,1 punti), mentre in Italia dal 112,5 al 131,8 (più 19,3 punti).
FRA MACRON E DI MAIO
E’ stato il colbertismo, bellezza! Si potrebbe dire. Ma forse è proprio questo che Di Maio non riesce ad afferrare. Quando propone di imitare Macron, si limita all’aritmetica. Quando è alle politiche che si deve guardare. Andare quindi, anche in Italia, verso un deficit di bilancio del 2,8 per cento per finanziare il salario di cittadinanza? E farlo senza aver prima costruito i presidi necessari per evitare una deriva assistenzialista? Dove sono i centri dell’impiego in grado di controllare che i beneficiari della provvidenza non passino la loro esistenza – come disse lo stesso Di Maio – a poltrire sul divano?
PROVVIDENZE STATALI E CONTROLLO SOCIALE
L’occasione – si sa – fa l’uomo ladro. Godere delle provvidenze dello Stato, senza alcuna possibilità di controllo sociale, significa incentivare le peggiori cose: dall’ulteriore crescita del lavoro nero, alla pura e semplice indolenza. Non si dimentichi l’esperienza dei “lavori socialmente utili”. Ha prodotto centinaia di disadattati.
LE IPOTESI SUL DEFICIT PROGRAMMATICO IN ITALIA
Torniamo, quindi, a bomba. Rispetto alle ipotesi che circolano in Italia – un deficit programmatico dell’1,6 per cento – si può osare qualcosa di più. Ma la condizione indispensabile è che sottostante proposte programmatiche, come in Francia, siano rivolte ad accrescere il tasso di sviluppo complessivo dell’economia italiana. Quel parametro – il 2 per cento – indicato da Paolo Savona, contro la metà delle più recenti previsioni? Magari. Avrebbe anche l’effetto di combattere la spirale deflazionistica sul fronte dei prezzi. Il problema è come perseguire questo obiettivo. Con un rilancio degli investimenti pubblici e privati? Certamente. Ma nel suo recente intervento, Ignazio Visco ha fatto vedere tutte le difficoltà implicite nel perseguire un simile obiettivo. Non abbiamo bisogno di aumentare stanziamenti di bilancio che restano sulla carta. Ma di cantieri che inizino i lavori. Altrimenti avremo il danno oltre la beffa. Un aumento poco credibile del deficit, che rischia di far crescere gli spread e quindi i tassi di interesse praticati nei confronti dei privati, mentre la spinta a favore dell’economia risulta inconsistente.
LA RIFORMA FISCALE
C’è quindi una via più diretta, come insegnano i francesi. Accelerare sul fronte della riforma fiscale. Non solo perché le tasse, a differenza di quanto sosteneva Tommaso Padoa Schioppa, sono tutt’altro che “bellissime”. Ma perché, in questo caso, l’effetto di stimolo è più diretto ed immediato. Sarà anche risolutivo? Questo si potrà vedere, con un attento monitoraggio. L’importante è non perdere ancora una volta il treno. Macron ha indicato una strada diversa, rispetto alle certezze tedesche. Dominus della Commissione europea. Approfittiamone, con intelligenza. Mettendo da parte le fisime sul “contratto per il governo del cambiamento” per guardare alle reali esigenze del Paese, che non può vivere un’altra stagione all’insegna di quella falsa coscienza che è una cattiva ideologia.