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Oro Russo

Perché M5S e Lega vanno alla guerra sull’oro della Banca d’Italia?

Gli obiettivi di M5S e Lega sulla titolarità delle riserve in oro della Banca d'Italia. La posizione della presidenza del Consiglio, dell'Istituto di via Nazionale e della Bce. E i dubbi sulla bontà e l'opportunità dell'iniziativa giallo-verde. Il commento di Gianfranco Polillo, già sottosegretario al Tesoro

 

Mercoledì prossimo il Senato dovrà pronunciarsi sulla mozione, presentata da Alberto Bagnai, il presidente leghista della Commissione Finanze, e da Laura Bottici, il questore pentastellato del Senato. Pezzi da novanta nei rispettivi schieramenti e quindi depositari, almeno così si presume, della relativa linea politica. La mozione n. 104 è firmata da 14 senatori: 13 della Lega. A reggere la bandiera dei 5 stelle è solo il questore del Senato. In essa si impegna il Governo “ad adottare le opportune iniziative al fine di definire l’assetto della proprietà delle riserve auree detenute dalla Banca d’Italia nel rispetto della normativa europea” nonché “ad adottare le iniziative opportune al fine di acquisire, anche attraverso la Banca d’Italia, le notizie relative alla consistenza e allo stato di conservazione delle riserve auree ancora detenute all’estero e le modalità per l’eventuale loro rimpatrio, oltre che le relative tempistiche”. Un vecchio pallino del duo Borghi-Bagnai.

Nella campagna di primavera intrapresa contro la Banca d’Italia, non c’è solo la Commissione d’inchiesta voluta dai 5 stelle. C’è anche la proposta di legge AC 1064 a prima firma del deputato Claudio Borghi, grazie alla quale si vorrebbe individuare il proprietario delle riserve auree detenute della Banca d’Italia. Argomento, a sua volta affrontato in un’altra interrogazione alla quale aveva già risposto il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Tema – aveva ribadito –che rientrava nell’ambito della discrezionalità politica del legislatore nazionale. Come si può notare dalla successione degli atti, si è quindi di fronte ad una vera e propria strategia di cui, per la verità, non si comprendono le finalità ultime. Cosa che eccita la fantasia di ogni commentatore, alimentando i peggiori sospetti circa una sorta di commercio simoniaco.

Se si guarda all’agenda politica più immediata, non si può fare a meno di notare più di una contraddizione. L’Italia, secondo le stesse ammissioni del ministro del Tesoro, Giovanni Tria, di qualche giorno fa, si trascina lungo la rotta della crescita zero. Il debito pubblico tende a crescere ad una velocità ancora maggiore rispetto ai mesi passati, bruciando ogni mese record precedenti. A questo di deve aggiungere che non c’è alcuno spazio fiscale possibile per una manovra correttiva, né per tollerare una crescita dell’Iva (23 miliardi solo nel 2020), nell’eventualità in cui non si riesca a neutralizzare le cosiddette “clausole di salvaguardia”. E che, quindi, non sarà facile presentare, il prossimo 10 aprile, quel Def che diverrà la cartina al tornasole in grado di mettere in luce tutte le contraddizioni italiane. E servirle su un piatto d’argento sul desk della Commissione europea.

Se questo è lo scenario, ha senso provocare l’Europa? Pestando i piedi di quelle Istituzioni – la Bce innanzitutto – che potrebbero, in qualche modo, spezzare una lancia a favore di un Paese sempre più sull’orlo di una crisi di nervi? Va solo ricordato che, di fatto, l’Italia è in “procedura d’infrazione” per il mancato rispetto della “regola del debito”, che lo scorso anno, invece di diminuire (seppure di poco) rispetto al Pil è aumentato. E aumenterà di nuovo durante l’anno. Finora la pronuncia da parte della Commissione europea, che dà la stura all’inizio della procedura, non c’è stata, considerata la particolare congiuntura politica e l’imminenza delle scadenze elettorale. Ma tutto ciò dovrebbe suggerire prudenza. Il non dar fastidio al can che dorme, perché potrebbe, anche, mordere.

Il Presidente del Consiglio, nel rispondere all’interrogazione di cui si è detto, ha minimizzato l’importanza del problema. Si tratta di un affare interno. Il che può essere vero da un punto di vista strettamente giuridico. Lo è molto meno da quello finanziario. Com’è noto le riserve auree italiane, secondo l’ultimo bilancio della Banca d’Italia, ammontavano (dicembre 2018) a 88,4 miliardi, mentre il complesso di quelle espresse in altre valute o in diritti speciali di prelievo, in 37,7 miliardi. Si tratta di un presidio posto a garanzia della stabilità non solo della Banca centrale, ma dell’intero sistema economico. Non si dimentichi quel che accadde negli anni ’70, quando di fronte ad un forte squilibrio della bilancia dei pagamenti, l’Italia ottenne prestiti dalla Bundesbank solo contro la garanzia rappresentata dall’oro, non disponendo più di altre riserve valutarie. Spese per sostenere il corso della lira. Oggi, grazie alla presenza dell’euro, tutto è molto meno drammatico. Ma le logiche sottese al sistema economico non sono poi mutate nei loro fondamentali.

Ma ancora più inquietante è la prospettiva europea. L’articolo 30, comma 1, dello Statuto del sistema europeo delle Banche centrali, ha fissato in 50 miliardi di euro le attività di riserva della Bce. Esse sono state conferite dalle singole Banche centrali aderenti al sistema dell’euro, in proporzione alla quota di capitale posseduto nella stessa Bce. Per l’Italia essa è pari all’11,8 per cento, in leggera flessione rispetto all’anno precedente (12,31 per cento) a causa della mancata crescita del Pil, cui questi valori si rapportano. Interessante è guardare al rapporto che intercorre tra l’ammontare delle riserve della Bce e quelle possedute dalla Banca d’Italia. Che sono quasi una volta e mezza. Un evidente controsenso, considerata la diversa potenza di fuoco dei due Istituti. Se la Banca d’Italia decidesse o fosse costretta a vendere anche una parte delle proprie riserve, le conseguenze sulla tenuta del prezzo dell’oro sarebbe immediata, considerate le caratteristiche poco mercantili, di quel mercato. E con la sua caduta, anche il valore delle riserve della Bce subirebbe un deprezzamento.

La delicatezza di questi rapporti spiega il contenuto dell’articolo 32, comma 2, che stabilisce che qualsiasi operazione inerente la gestione delle riserve a disposizione delle singole Banche centrali nazionali, eccedenti quelle conferite alla Bce, “sono soggette all’approvazione della Bce al fine di assicurarne la coerenza con le politiche monetaria e del cambio dell’Unione.” Salvo “le operazioni compiute in adempimento dei loro obblighi verso organismi internazionali. (art. 32, comma 1). Se questa è la situazione ha senso discutere sul diritto di proprietà? Mario Draghi – è ricordata nella stessa mozione – rispondendo ai parlamentari europei Marco Valli e Marco Zanni, ha fatto presente che in relazione alle riserve valutarie “il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e lo Statuto del SEBC non utilizzano il concetto di proprietà per determinare le competenze del SEBC”. Ma si limita a stabilire le regole relative alla loro detenzione e gestione.

Su questa formula è ritornato anche Ignazio Visco, nella sua Relazione annuale: “il Trattato, – ha ricordato – prescindendo dalle specificità delle normative nazionali, fa riferimento al compito di detenere le riserve e svolgere su di esse tutti gli atti giuridici di disposizione che rientrano nel concetto di gestione: nel nostro ordinamento tale assetto si realizza con il diritto di proprietà.” Si può quindi anche insistere nella ricerca di ulteriori complicati sofismi. Ma a condizione che quest’attività con comporti conseguenze. Se invece fosse il cavallo di Troia per una successiva contestazione dei poteri della BCE, codificati nell’articolo 32 dello Statuto. O addirittura il preannuncio della vendita dei gioielli di famiglia, sarebbe meglio soprassedere. Sempre che non si voglia decidere surrettiziamente l’Italexit. Il che, visto quel che accade in Gran Bretagna, non sarebbe una gran pensata.

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