Caro direttore,
nella stampa e nei partiti più vicini alle ragioni dello sciopero generale di ieri, è passata curiosamente sotto silenzio una rivendicazione che campeggia nella lunga e costosa lista delle spesa di Cgil e Uil: il blocco dei licenziamenti (“come nella pandemia”, ha precisato ieri Maurizio Landini). Questa misura fu introdotta dal secondo governo Conte nel 2020 per proteggere i posti di lavoro minacciati dal Covid e dal lockdown. L’Italia fu l’unico paese dell’Ue e dell’area Ocse a sperimentarla. A metà 2021, la Commissione europea osservò che la misura era controproducente perché impediva la ristrutturazione delle aziende; e, inoltre, non tutelava i dipendenti temporanei, che infatti persero in gran numero il loro impiego.
Ma il sindacato non la pensava così. Ricorderà la sua campagna contro il governo Draghi per estendere il divieto. La Cgil prevedeva che con la sua fine almeno settecentomila lavoratori sarebbero stati gettati sul lastrico. La sparava ancora più grossa la Uil, che preconizzava una “bomba sociale” di un milione di licenziamenti.
Come è noto, da allora a oggi gli occupati stabili sono aumentati di un milione e mezzo di unità. Per altro verso, il Rapporto annuale dell’Inps ha certificato che il numero dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato licenziati nel 2023 (507mila) è di gran lunga inferiore a quello del 2019 (642mila).
Caro direttore, questi sono i dati. Possono essere deliberatamente occultati o ignorati, ma la realtà poi presenta il conto. Anche nelle urne. Non per caso tutti i sondaggi attestano che, nelle elezioni politiche del 2022 e in quelle europee del 2024, la maggioranza relativa degli operai e dei lavoratori dipendenti ha votato per il centrodestra.